Alcuni quadri nascono senza troppe pretese, ma poi si ritrovano a fare la storia. A diventare emblemi di un’epoca, manifesti del proprio tempo. A ricordare al mondo il proprio presente. Esattamente duecento anni fa, un giovane pittore di nome Théodore Géricault svela al pubblico quello che è destinato ad essere ricordato come il suo capolavoro. La zattera della Medusa si impone presto come attrazione principale del Salon di Parigi del 1819, sconvolgendo, per il suo crudo realismo, l’opinione pubblica del tempo e provocando l’indignazione della critica, fedele all’ideale del classicismo.
Leggi anche:
«Gli Alienati», con Théodore Géricault nei bassifondi della psiche umana
La società parigina non può dimostrarsi insensibile dinanzi alla magistrale rappresentazione anatomica dei cadaveri, la disperazione dei corpi ammassati, la tortuosa articolazione dello spazio, la tragicità complessiva della scena, accentuata da un chiaroscuro violento. Ma al di là delle questioni tecnico-formali che interessano per lo più gli accademici, l’opera colpisce l’emotività di chiunque perché richiama alla memoria un reale fatto di cronaca.
Il 2 luglio 1816, una fregata della Marina francese naufraga al largo della Mauritania a causa dell’incompetenza del comandante, Hugues Duroy de Chaumareys. Centoquarantasette uomini si accalcano su una zattera ma la miseria e la disperazione di una situazione all’apparenza senza via d’uscita generano episodi di pazzia e persino di cannibalismo. Alla fine, solo in quindici sopravvivono a quell’inferno sul mare. L’anno successivo, due dei sopravvissuti, Alexandre Corréard e il medico Jean-Baptiste Savigny, espongono in un libro l’orrore di quel dramma. Turbato dalla lettura, Géricault incontra direttamente i testimoni, realizza una copiosa serie di studi sul corpo umano, trascorre diverso tempo al porto di Le Havre scrutando l’oceano. E poi parte davvero, ripercorrendo la rotta sino alle coste africane, vivendo in prima persona la forza delle onde, la sensazione di impotenza di quando si è in balia del mare.
Di ritorno in patria, il pittore si dedica intensamente alla fase creativa, comprendendo di non voler riportare solo un episodio di cronaca bensì di trasmettere un messaggio, tanti messaggi celati nei dettagli dell’opera. Lo deve alle vittime di quella disgrazia, lo deve alla sua Francia in crisi, ancora spaesata tra Restaurazione e modernità, lo deve alla propria Arte. Allora dipinge, ad esempio, tre uomini di colore mentre uno soltanto era davvero presente sulla zattera. Il particolare viene presto letto come una dichiarazione simbolica delle posizioni ideologiche dell’artista, al pari di una personale denuncia contro la schiavitù. Una risposta ideale, forse, all’abolizione della tratta degli schiavi decretata appena un anno prima dal re Luigi XVIII, in una legge lacunosa che consente ai mercanti di aggirarla facilmente. Altri velati attacchi politici vengono confermati dal fatto che il titolo iniziale, Scena di un naufragio, viene censurato per evitare dirette accuse contro il governo, la cui Marina si è dimostrata incapace di gestire l’incidente, causando la strage.
Con La zattera della Medusa, Théodore Géricault svela il suo lato di artista impegnato, sensibile ai problemi del proprio tempo, turbato da un presente incerto e dai suoi valori in bilico. È l’indole inquieta dell’artista a riversarsi nell’opera, perfetta incarnazione della nuova sensibilità romantica, ma al tempo stesso vi si riversa l’inquietudine di un’epoca, di una società che cambia, ma forse non nel verso giusto. Allora si aggrappa all’albero maestro sventolando bandiera bianca, ma alla fine chissà se sarà salvata. Nel 1847, durante un corso al Collège de France, lo storico Jules Michelet vi riconoscerà il naufragio della Francia, «tutta la nostra società è a bordo di quella zattera».