È semplice elencare le idee che comunemente gravitano attorno al concetto di arte giapponese, quasi un automatismo: toni malinconici, morbidezza cromatica, sacralità della natura, gusto per il dettaglio, sessualità mai volgare (ma sempre seducente) e via discorrendo. Da questi stilemi rimangono affascinati alcuni dei più grandi esponenti della cultura occidentale, nel solco del cosiddetto orientalismo. Ma c’è uno scrittore che vive tragicamente l’occidentalizzazione post bellica del Sol Levante. Nel 1970, a 45 anni, Yukio Mishima irrompe nel Ministero della difesa, imbavagliando il generale delle forze armate, occupando poi il suo ufficio, e in diretta televisiva si suicida secondo il rituale dei samurai (il seppuku).
Hiraoka Kimitake – questo il nome all’anagrafe – trascorre la sua infanzia sotto le ali della nonna paterna, che occupa prepotentemente il ruolo di madre: è lei che regola l’educazione del bambino, determinando di fatto la sensibilità del futuro astro della letteratura giapponese. Non solo ne delinea il profilo interiore, ma lo conduce anche nel mondo della tradizione, nel teatro classico e nelle cronache mitologiche, nell’universo arcano che Mishima inseguirà per tutta la sua esistenza fino alla morte. E il primo germoglio di questa ricerca è La foresta in fiore (1944) raccolta di cinque racconti scritti fra i diciassette e i diciotto anni: La foresta in fiore, Otto e Maya, La luna sull’acqua, A futura memoria, Diario di preghiere.
Per un adolescente, a maggior ragione durante il conflitto della Seconda Guerra mondiale, evadere dalla realtà è la migliore arma di difesa.
A quel tempo, anche mentre zappavo la terra per il servizio obbligatorio la mia mente fluttuava. Immaginare un racconto, la gioia di scriverlo. Il primo piacere che ho imparato dalla vita è stato questo. Godere di questa dolcezza, molto prima di conoscere l’amarezza della letteratura, ha determinato nel bene e nel male tutta la mia natura umana e artistica.
Con tale intensità l’autore ricorda il rapporto giovanile con la letteratura, magico e necessario. Un processo creativo che nasce dall’amarezza della realtà, si materializza nel potere della parola, e cadrà infine nell’amarezza della letteratura (nel suicidio). La foresta in fiore offre tutti gli strumenti per entrare a conoscenza del mondo di Yukio Mishima, sin dal suo esordio.
Il primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, è ispirato all’esaltazione del passato glorioso contrapposto all’arido presente: un bambino riscopre in soffitta i cimeli dei propri antenati, e da questi si sprigiona la storia della propria famiglia. Otto e Maya è la triste elegia dell’amore fra due giovani dell’Asia centrale, ma si ravvisa un’atmosfera mistico-allegorica, sicuramente dovuta al fascino delle cronache mitologiche raccontate dalla nonna. La luna sull’acqua, invece, trasporta il lettore nell’epoca cortigiana Heian (794-1186) ambientandovi uno scambio epistolare fra due giovani innamorati. Permane un simile quadro storico in A futura memoria: viene qui dipinta la vita del giovane Haruie, figlio di un “guerriero aristocratico”, nato con la profezia di un monaco buddhista, sotto l’influenza dei racconti cavallereschi del periodo Kamakura (1186-1333). A conclusione della raccolta si trova Diario di preghiere, che ammoderna una vicenda amorosa dell’Ise monogatari – opera della metà del X secolo, pilastro della letteratura giapponese – rielaborandola in chiave introspettiva. Il medesimo stile permea le pagine di tutti e cinque i racconti: seguendo la lezione occidentale di Oscar Wilde la parola è scelta accuratamente per la sua forza estetica, la sintassi è lineare e asciutta per esaltare l’eleganza delle scene descritte.
Tuttavia, nei toni di Mishima c’è una pesantezza che manca alle pagine ariose del dandy. È la gravità di un diciottenne che sente rimescolare in sé la nostalgia per il passato, il desiderio corporale e il presagio della fine – tutti temi che saranno ampliati nella maturità, in opere come Confessioni di una maschera, Musica o La voce delle onde, dove all’introspezione si aggiunge una psicanalisi chirurgica. Il primo dei tre temi citati poco sopra, il desiderio di un ritorno all’antichità, è strettamente legato al dato autobiografico. Non a caso, la nonna del protagonista de La foresta in fiore «soffriva di nevralgie […] Quando iniziavano i tristi lamenti di mia nonna, il dolore traboccava come un’onda invisibile». O ancora, quando il bambino si appresta a salire nella soffitta piena dei cimeli degli antenati riflette fra sé e sé:
I ricordi erano una sorgente che avevo trovato spostando mucchi di foglie, una sorgente che finalmente rispecchiava la volta celeste
[…]
Io so dove sono nascosti i miei desideri. Essi sono come un fiume che scorre veloce, qualsiasi punto della sua corrente muta di continuo. Gli uomini non fanno in tempo a guardarlo che esso è già cambiato. I loro sguardi non possono fermarlo perché è eterno. I miei desideri devono essere lì, dove si sono sempre nascosti i desideri dei miei antenati.
L’attrazione verso i sensi, in letteratura, va di pari passo con quella verso la morte. Dall’inizio alla fine, in Otto e Maya aleggia questo spettro macabro. Già nelle prime pagine del racconto, la ragazza muore misteriosamente, e così il suo uomo, da amante felice, si ritrova precipitare in una “nuova esistenza”. Hiraoka Kimitake, la versione adolescenziale di Yukio Mishima, sprigiona il proprio talento facendo muovere su un insieme di personaggi dai profili (volutamente) poco approfonditi, ma dalle riflessioni complesse, tutte le inquietudini sue e della sua generazione – e qui sta l’importanza storica dello scrittore.
Non vi era alcun rimedio alla sua agonia. […] Così il conflitto interiore di Otto si inaspriva di giorno in giorno, ed egli non riusciva ad averne ragione né trovava la forza di seguire la sorta di Maya. La sua anima era come una stanza in disordine, dove, nonostante la confusione, regna un ordine soffocante, in cui non si può spostare neanche un foglio di carta.
La personalità di Yukio Mishima è dunque dilaniata da più poli di attrazione, complessa, e perciò affascinante. Il suo narcisismo è essenziale per poterne comprendere la figura: c’è chi lo paragona ad un esteta dannunziano, chi lo inserisce nel filone degli intellettuali omosessuali isolati dalla società e nostalgici di un passato popolare irrecuperabile, come Pier Paolo Pasolini, Federico Garcìa Lorca o Walt Whitman.
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Di certo ha dedicato tutta la sua vita a scrivere per scandalizzare e per scandagliare. Ha recitato la sua tragedia con una passione commovente, ha ricercato disperatamente l’affetto negatogli dalla famiglia, urlando come un folle per la morte dell’Imperatore, e se n’è andato lasciando nel proprio ufficio il biglietto che al meglio riassume il motivo del suo fallimento: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre».
Andrea Piasentini
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[…] al maschile tra studenti universitari. Nel 1949 esce poi Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, dove il giovane protagonista è attratto da uomini molto virili, un desiderio che lo turba e lo […]