La sua carriera è appena cominciata, ma Xavier Dolan è già un unicum destinato a entrare tra i grandi della storia del cinema. Una raffica incalzante di film, riconoscimenti e standing ovation che inizia quando Dolan ha solamente 19 anni. Il primo film? Scritto a 16, tanto che la giovane età non gli permette immediatamente di produrlo.
Nato a Montreal nel 1989, figlio di un insegnante e di un attore di origine egiziana, fin da giovanissimo Dolan recita in spot e serie televisive. Già nel 2008 lavora da autodidatta al suo primo lungometraggio, J’ai tué ma mère, interpretato da lui stesso e basato sulla sceneggiatura Matricide, scritta all’età di 17 anni, sul difficile rapporto di odi et amo tra un ragazzo che si scopre omosessuale e sua madre. Quello stesso anno il film incanta e sorprende la critica e il grande pubblico: inaspettatamente viene selezionato tra i Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 67, guadagnandosi il Premio Art Cinéma, il Premio SACD e il Premio Regards Jeunes, mentre nel 2010 e nel 2012, Les Amours imaginaires e Laurence Anyways vengono presentati per la categoria certain regard. La consacrazione arriva nel 2014, quando sempre a Cannes riceve il Gran Premio della Giuria, condiviso ex aequo con Jean-Luc Godard, rispettivamente per i film Mommy (standing ovation da 8 minuti) e Adieu au langage: un significativo passaggio del testimone tra uno dei grandi monumenti della Nouvelle Vague e un giovane talento ormai inarrestabile.
Per questo il suo ultimo film È solo la fine del mondo (2016), tratto dall’omonimo testo teatrale scritto nel 1990 da Jean-Luc Lagarce e presentato allo scorso Festival di Cannes, era uno dei più attesi del 2016 grazie anche ad un cast tutto francofono di altissimo livello, in cui figurano Marion Cotillard, Vincent Cassel e Léa Seydoux.
Il suo marchio di enfant prodige l’ha reso uno dei registi più apprezzati ma anche più criticati della scena attuale, sia per il suo stile duro, cupo e deciso, sia per il suo carattere sfrontato e impertinente: un genio alle prime armi che non ha paura di confrontarsi e scontrarsi con i grandi del cinema.
I film di Dolan raccontano Dolan, la sua incontenibile personalità si riflette in ognuno dei protagonisti, da Laurence, che sente di essere una donna nel corpo sbagliato, fino all’ultimo Louis, scrittore ed artista di successo che vive con timore e sconforto il ricongiungimento con i famigliari che non vede da più di 12 anni. I personaggi del giovane cineasta canadese vivono in perenne lotta con la realtà che li circonda, mine vaganti di una società opprimente ed omologante.
Narrando situazioni estreme di marginalità, bullismo e incomprensione, Xavier Dolan si immedesima intensamente (e spesso recita) in ognuna delle sue opere. Racconta se stesso nel modo più vero e emozionante possibile, viene letteralmente investito dalla forte carica drammatica e dalla sensibilità delle sue produzioni.
Basta dare un’occhiata alla sua filmografia per riconoscere (e riconoscersi) nelle tematiche l’espressione dello sconforto di un’intera generazione profondamente lacerata, che rompe le catene delle convenzioni sociali per arrivare a una nuova scoperta di se stessa e della propria sessualità.
Sicuramente, il drammatico rapporto con la famiglia, e soprattutto con la figura materna, è un leit motiv che si accompagna allo spinoso e attualissimo tema della omosessualità. Senza mai sfociare nel genere del “romanzo di formazione”, Dolan si fa comunque narratore della fugacità della vita e di quella affascinante età della giovinezza dove l’amore e la novità della scoperta del piacere travolgono totalmente i personaggi. Tra le immagini che rimangono più impresse ritroviamo sicuramente la relazione a tre di Les Amours imaginaires , chiaro riferimento a Jules et Jim (1962) di François Truffaut, pietra miliare della Nouvelle Vague.
Andando ad approfondire il suo ultimo (capo)lavoro, È solo la fine del mondo (Just la fin du monde) risulta essere un film di frustrazione dove i personaggi sono relegati nell’inettitudine di una società sterile e dimenticata, in una città svuotata di tutto, privi di stimoli e di ambizione. Louis torna nella sua città natale dopo 12 anni di assenza per annunciare ai suoi famigliari la sua morte imminente (chiaro riferimento alla vita dello scrittore Lagrance, morto di AIDS a 38 anni).
A casa ad attenderlo Louis ritrova sua madre, figura chiave della poetica di Dolan, che sembra vivere in una bolla, in una dimensione “altra”, il fratello Antoine, personalità nervosa e violenta, che fin da bambino soffre un profondo senso di inferiorità nei confronti del fratello, e Suzanne, la sorella minore, ragazza superficiale e tormentata dalla droga. Louis come uno specchio silenzioso riflette e assorbe le frustrazioni dei suoi cari, è bloccato, non riesce a parlare e tantomeno ad annunciare la sua morte.
Un vano tentativo di riconciliazione e normalità pervade tutta la proiezione, ma allo spettatore bastano pochi minuti per capire che in realtà nessuno di loro si conosce veramente, nessuno hai il coraggio di mostrare le sue debolezze, di manifestare un reale sentimento, neppure un semplice sorriso.
La mancanza di complicità, di empatia e di fiducia reciproca genera un’incomunicabilità dove tutti i personaggi parlano, ma nessuno sembra ascoltare. Il ritrovarsi intorno a una tavola, momento di convivialità e condivisione, sfocia in una serie di aggressioni verbali apparentemente prive di ragione, sintomo di un continuo rimuginare sugli errori del passato. Non è una famiglia, quella che ci troviamo di fronte, ma un branco privo di gerarchia dove i componenti si prevaricano a vicenda pur di farsi valere.
Lo spettatore assiste a questo opprimente dramma famigliare attraverso lo sguardo di Catherine, moglie di Antoine e vittima di uno scontro famigliare incessante, che dall’esterno osserva atterrita la rappresentazione di una situazione irrecuperabile dove gli uomini e le donne sono diventati fantasmi di loro stessi, maschere e caricature di esseri umani privi di idee e punti di riferimento, che hanno perso il controllo del tempo, ma che soprattutto non sono più padroni delle loro vite. Che cosa resta di una vita sprecata? Nulla, solo un polveroso passato su cui riversarsi e in cui chiudersi. Da qui l’attaccamento di Louis ai ricordi, alle sporadiche riapparizioni di un passato lontano, dove la musica, l’amore e il contatto con la natura riempivano le giornate e gli occhi dei protagonisti: quello era il tempo della vita e delle emozioni.
Le inquadrature ravvicinate sul volto degli attori conferiscono all’opera un senso di claustrofobia e soffocamento che ben rappresenta lo spirito e i pensieri di Louis, primi piani che non lasciano tregua a chi guarda e che ben trasmettono il senso di distorsione in cui i protagonisti sono prigionieri.
La casa si tramuta in una gabbia priva di luce, dove la freddezza del blu, colore della nostalgia e della malinconia, si riflette nei glaciali sguardi dei protagonisti. Forse non casualmente tutti gli attori hanno infatti gli occhi azzurri, occhi grandi, magnetici che scavano nella coscienza dello spettatore.
Ciò che distingue Xavier Dolan oggi è la capacità di essere se stesso, di aver trovato un proprio stile, una capacità di parlare al pubblico diretta e senza retorica, estremamente contemporanea e attuale. Nonostante venga da molti considerato un acerbo narciso, egli rappresenta un talento sensibile e sempre lucido che sa scuotere le coscienze e i cuori, regalandoci attraverso i suoi protagonisti una carica di emozioni per cui l’aggettivo originale non è abbastanza.