Nel pieno delle continue e sterili polemiche sul Premio Nobel a Bob Dylan, nessuno ricorda quel menestrello gentile che di Robert Allen Zimmerman fu “predecessore” e fonte perpetua di ispirazione e rivolte. Non lo ricorda l’Accademia di Svezia, non l’ha ricordato Barack Obama nemmeno quando chiamò Dylan e Bruce Springsteen alla Casa Bianca. Eppure proprio al Boss e a Pete Seeger aveva chiesto di cantare This land is your land. Ma questa terra non sarà mai la sua terra se neppure quando il tempo risarcisce le ingiustizie del passato si ha la forza di pronunciare un nome che dell’America ingloriosa è stato cantore e figlio amato. Non sarà mai sua una terra che l’ha condannato troppo a lungo a essere un nome vergato su un fascicolo in mano all’Fbi: Guthrie Woody, 14/7/12.
Lui che dall’Oklahoma delle dust bowl si era trasferito in California per cantare, con solenne intensità, il destino vissuto in prima persona degli oakis del Midwest. Lui come John Steinbeck, o ancora come John Ford, artista portavoce della miseria brutale di chi doveva migrare lontano a causa delle tempeste di sabbia e dell’avidità delle banche. Lui che era la personificazione della mobilità sociale, eterno vagabondo costretto – o solo capace – a viaggiare su treni merci iperaffollati, quando la Grande Depressione scorticava la pelle e l’unica alternativa era arrabattarsi e pregare, per non morire.
Dalla forza delle armi improprie traeva il coraggio per dar voce ai diritti dei più deboli, alle vertenze sindacali e alle battaglie in favore dei lavoratori sfruttati. Uno spartito, qualche nota e una chitarra che non a caso brandiva la scritta «Questa macchina uccide i fascisti». Con le strutture del folk bianco e del talking blues, Woody Guthrie aveva trasformato la canzone in strumento di denuncia, anticipando quelli che sarebbero stati i movimenti giovanili degli anni ’60, l’ugualitarismo, il socialismo, le basi fondanti della democrazia.
Ed era stato ridotto a un numero, scritto in alto all’angolo di una pila di fogli poggiati sulla scrivania di J. Edgar Hoover. Non il Leonardo di Caprio di Clint Eastwood, quello era forse fin troppo edulcorato. No, il vero padre padrone dell’Fbi, l’uomo che cercò d’insabbiare l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e le più fosche verità d’America, colui che visse perennemente nell’incubo dei neri e – soprattutto – dei rossi. E Guthrie era comunista, oh sì che lo era. Persino alla notizia del patto Molotov-Ribbentrop, e poi all’invasione della Polonia, reagì capendo le ragioni di Joseph Stalin: «Anche Stalin è entrato in gioco / s’è preso mezza Polonia e ha ridato indietro / le terre ai contadini. / Se vivessi in Polonia / sarei felice della venuta di Stalin / che scambiò il mio fucile per la terra». Discutibile, chiaramente, ma senza dubbio contestualizzabile.
Però sovrapporre così, con sfacciata fierezza, la falce e il martello alle stelle e strisce dell’american dream era pericoloso, persino nella più grande democrazia del mondo che in realtà, come diceva lui stesso «è proprio l’ultimo posto libero». Vent’anni di sorveglianza per l’ex hobo dell’Oklahoma, vent’anni di vite degli altri per Woody Guthrie che di quel Paese ingrato aveva riscritto la storia del folk.
Edgar Hoover pose solo nel 1955 la sua firma sotto il fascicolo che decretava la fine di quell’incubo silenzioso ma mai così assordante. «Viste le condizioni di salute del soggetto e la mancanza di notizie credibili, e di prima mano, sulla sua appartenenza, negli ultimi cinque anni, al Partito comunista, si suggerisce di cancellare il nome dall’Indice di Sicurezza». Woodrow Wilson “Woody” Guthrie non era più sorvegliato speciale, ma era già un Dead Man Walking. A quarantatré anni, affetto da quel morbo di Huntington ereditario che nessuno aveva il coraggio di chiamare per nome.
Attacchi di follia, movimenti senza controllo, irascibilità, tutti sintomi e conseguenze di una malattia che persino la famiglia identificava – o nascondeva – dietro la maschera dell’alcolismo e della schizofrenia, diagnosi di comodo con cui lo rinchiusero al Greystone Park Psychiatric Hospital di Morris Plain, dove morì senza più la capacità di imbracciare quella chitarra che lo aveva reso leggenda e che allora, al suo capezzale, suonava il futuro Bob Dylan arrivato dal Minnesota «per conoscere Woody Guthrie».
Un nome che scomodo che non esce ancora dall’oblio del perbenismo e delle convenzioni. Scomodo perché simbolico, a partire dall’onomastica che richiamava quel Woodrow Wilson governatore democratico del New Jersey e futuro presidente. Simbolico come la data di nascita (14 luglio), la presa della Bastiglia madre di tutte le rivoluzioni.
Al momento in cui Bob Dylan lesse Last thought on Woody Guthrie sul palco del Town Hall di New York, l’uomo che aveva impresso una svolta alla sua vita era ancora vivo. Quando morì, nel 1967, Dylan lo ricordò in un’intervista alla BBC, che racchiude in sé tutto il senso della grandezza del menestrello disperato strappato alla vita troppo presto:
«La prima volta che ho sentito Woody ero a una festa a casa di uno che faceva l’avvocato e anche il cantante folk. Aveva dei dischi di Woody Guthrie […] Gran Coulee dam, Pastures of plenty, Pretty boy Floyd, Tom Joad, Vigilante man. Cosa ci fosse di diverso in lui è difficile da dire. Sono così tanti i motivi per cui era diverso che ci si potrebbe riempire un libro. Aveva un suo sound. Certo tutti quanti hanno un sound, ma il suo era particolare, più o meno il tipo di sound della Carter family. E poi diceva delle cose che dovevano essere dette. E tutto ciò era così insolito per le mie orecchie! Di solito si possiede o l’una o l’altra qualità. Lui invece aveva sempre qualcosa da dire. Io dovevo assolutamente scoprire chi fosse quel tipo e sapere tutto di lui. Così ho cominciato ad imparare le sue canzoni. C’è stato un periodo della mia vita in cui non facevo nient’altro che le sue canzoni. E ho letto il suo libro Bound for Glory, che un professore di musica folk dell’università del Minnesota mi aveva prestato perché non era proprio il tipo libro che librerie avevano in vendita. Ho pensato che Bound for Glory fosse il primo On the Road e naturalmente ha cambiato la mia vita. A quel tempo ero completamente preso da lui, dal suo spirito o qualunque cosa fosse. Ascoltando le sue canzoni si poteva imparare come vivere, come sentire. Woody era una guida. Non potevo credere di non avere mai sentito parlare di lui. Non sapevo se fosse vivo o morto, ma stavo cercando di scoprire dove si trovasse. Quando finalmente l’ho incontrato lui non stava bene. Io andavo a trovarlo quasi come un discepolo. Gli cantavo le sue canzoni. Andavo da lui solo per quello. In effetti non gli ho mai parlato molto. E comunque lui non poteva parlare. Era molto disturbato mentalmente, però le canzoni continuavano a piacergli. Certe volte me ne chiedeva qualcuna. Io le sapevo tutte, ero come il juke-box di Woody Guthrie. Se Woody Guthrie ci fosse ancora sarebbe molto deluso. Ma ogni cosa succede a tempo debito. Woody Guthrie è stato chi è stato perché è vissuto quando è vissuto. Per me è stato come un anello in una catena, come io lo sono per altre persone e chiunque di noi lo è per qualcun altro. Siamo tutti anelli in una catena. C’era innocenza in Woody Guthrie, c’era un tipo di innocenza che non ho mai più ritrovato. Se fosse reale o un sogno chi può dirlo? Però era una specie di innocenza perduta. E dopo di lui non c’è stata più».
Sarà per questo che ancora oggi si fa fatica a riportarlo alla memoria. L’innocenza non è qualcosa che s’impara, o la si possiede oppure no. Lasciamo allora che i moti dell’anima spingano ancora Dylan a volerlo ricordare. Al di là delle polemiche sulla letterarietà, in questo Nobel rivive un po’ anche lo spirito di Woody Guthrie.
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