Woody Allen e l’elefante nella stanza

Alla domanda «davvero Allen non fa un buon film da anni?» dobbiamo rispondere. E per noi gli ultimi film di Woody Allen sono degli ottimi film.

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Vorremmo affrontare l’elefante nella stanza come il mago interpretato da Colin Firth in Magic in the Moonlight: una gabbia magica e “puf!”, scomparso. Ma alla domanda «davvero Allen non fa un buon film da anni?» dobbiamo rispondere. E per questo per ora l’elefante resta sul palco. Problema: non si può osservare un pachiderma nella sua interezza. Servono prospettive, punti di vista. Per fortuna con Allen non mancano mai. Sono venti i film che andremo a riscoprire, attraversando “l’ultimo – famigerato – Allen” tra repentini cambi di stile, affermazioni ideologiche, variazioni sul genere. In mezzo a tutto questo, una risposta. La parola magica per far scomparire l’elefante e tornare a goderci lo spettacolo. Iniziamo con un gioco di etichette (senza dirlo ad Allen che poi si arrabbia). Tra i venti film, troveremo gli innocui (o i filmetti), le anomalie, i brutti e infine i capolavori. Venti film sono una carriera intera per molti registi. Per Allen no, è solo un pezzo di strada. Ma proviamo un gioco d’illusionismo e, senza negare mai il periodo d’oro di Manhattan e Annie Hall, mettiamolo da parte. Fingiamo di avere appena conosciuto questo regista americano furbo come tutti «ma con gli occhiali». Dimentichiamoci il resto, come fa lui di film in film. Ripartiamo, e affrontiamo l’ultimo Allen come una carriera a sé. Concediamoci il piacere di non essere distratti da quello che Woody Allen significa. Guardiamo i film, scoprendone il regista per via induttiva. Intanto, occhio all’elefante: che nessuno si muova o qui finisce in tragedia.

Anno Zero, primi esperimenti e pessimi auspici

Vive a Manhattan, mangia solo da Elaine’s e ha una vita coniugale felice ma dal passato turbolento per via di un divorzio finito male. Non sappiamo molto altro, ma se quest’Allen – nato Allan Stewart Königsberg – avrà fortuna, i tabloid sapranno ricercare il pelo nell’uovo. A proposito, Mr. Allen mangia le uova solo bollite e salate, immerse in una tazza di caffé colma di riso soffiato. Poi mescola tutto con un cucchiaino. Se possibile, il newyorkese porta l’assurdità dei suoi film anche nella vita quotidiana.

Ma scopriamola, quest’assurdità artistica. Woody Allen approda nei cinema nordamericani con una pellicola tutto sommato innocua ma con un buon ritmo narrativo. Criminali da strapazzo (Small Time Crooks, 2000), un esperimento comico che inizia come un heist movie e poi si fa parabola del parvenu. «Elegante ma poco calorico», come i cioccolatini che Ray, criminale di serie B interpretato proprio da Allen, regala alla moglie. Perché la sua signora «mette ciccia sulle cosce». Un buon regista non rimpinza mai lo spettatore. Dosa gli elementi, cucina a fuoco lento. Per questo forse il newyorkese sfora di rado l’ora e mezza di film. È fedele a un cinema costruito come le case di una volta: stanze grandi e finestre piccole. Se ti affacci vedi una porzione di mondo, ma sempre più felice e intrigante della noiosa realtà. In Criminali da strapazzo inizia con tutto il gusto per un’epica gangster presa a picconate. Perché Allen, che racconta in più occasioni di essere cresciuto con eroi del calibro di John Dillinger (non proprio Superman), non si riesce a immaginare in una rapina. È più che altro un pagliaccio dalle ambizioni fuori taglia. Nei suoi film sembra fuori luogo; li veste come lo Charlot di Chaplin indossava vestiti sempre troppo grandi.

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