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Woody Allen e Diane Keaton in "Io e Annie" (1977)United Artists/Entertainment Pictures

Woody Allen, la genialità di una mente ironica

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Kirsten Stewart sorride mentre alza gli occhi al cielo tracciando con lo sguardo un solco invisibile in senso orario. È circondata da coriandoli e bicchieri di champagne, tutta sorrisi e baci d’auguri. Da un’altra parte, più o meno lontano, c’è Jesse Eisenberg, in smoking bianco e moglie bionda al seguito, palloncini ai lati del locale e mani che applaudono a una fine e a un buon principio. È Capodanno, la gente che si ama festeggia senza amore, bacia una bocca che sa di abitudine e sfiora una guancia che vorrebbe diversa. Café Society finisce come Basta che funzioni, solo un po’ più mesto, un po’ più malinconico, meno pungente e assai più rétro. Il sipario viene calato a mo’ di titoli di coda, si chiudano le luci e inizi il dibatto su quanto Woody Allen sia ancora oggi Woody Allen.

Quasi un vuoto esercizio di stile, un gioco al confronto ormai obsoleto, azzarderemmo codificato, come il parteggiamento infantile per mamma o per papà, per Maradona o Pelè, per la Coca o per la Pepsi. Woody o non Woody, quasi fossero due persone, due entità distinte, un ieri e un oggi che hanno scisso l’essere unico in parti contrastanti. Se non fosse che a confrontarsi senza possibilità di conciliazione sia la schiera degli spettatori (critici, cinefili, amanti dei pop corn davanti allo schermo), pronta a ritagliare a proprio uso, e sempre più spesso, la figura immortale di un uomo che non vuole saperne di raggiungere la sempiterna memoria, preferendo restare nel suo appartamento piuttosto che nel cuore degli americani.

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L’ultimo film è sempre migliore del precedente, no, ormai è un creatore di feuilletton a cadenza regolare. L’instancabile circo dei giudizi cinefili è come il pendolo che oscilla incessantemente tra elogianti acritici e sedotti e abbandonati, woodyniani convinti e alleniani traditi. Ogni volta che si parla di una nuova pellicola parte il tormentone delle valutazioni – spesso aprioristiche – che rende ogni conversazione al riguardo sterile e irritante come solo il Sì o No al referendum costituzionale ha saputo eguagliare. Poco importa che l‘estrema prolificità di Woody Allen impedisca di fatto una valutazione corretta e ponderata di ogni singolo film; l’importante è schierarsi, fosse anche solo per mettere mi piace su Facebook al prossimo trailer, o conversare il lunedì nelle pause di lavoro dopo aver passato la domenica pomeriggio al cinema.

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Ecco che allora, superata l’età in cui le candeline non entrano più sulla torta e i film non possono formare un cofanetto che abbia un peso sostenibile, parlare di Woody Allen significa da un lato farne l’elogio, dall’altro tributargli una sorta di commemorazione. Certo è che, per un regista che i cinéphiles vogliono morto da tempo (e non solo ora; Goffredo Fofi, negli anni Settanta, lo definiva «un insopportabile coglione»…) l’elisir di lunga vita o la pietra filosofale devono aver funzionato davvero, travalicando i confini del mondo magico per approdare sul lettino di uno psichiatra newyorkese che fa un sacco di domande che vostra moglie vi farebbe gratis.

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Woody Allen è nato e risorto artisticamente così tante volte da far pensare a un’incarnazione vivente della fenice che rinasce dalle sue ceneri. Ha dato vita a prodotti unici, è scivolato nel melenso e persino nello stereotipo, ha poi stupito tutti un’altra volta con il thriller, la musica, l’originalità e l’ironia. Più indistruttibile dell’acciaio, più impermeabile alle mode del tempo di chiunque altro. È riuscito a entrare nella storia della settima arte pur avendo «la sensazione oggettiva è di non aver conseguito nulla di significativo dal punto di vista artistico», ha colonizzato l’immaginario di tre generazioni ed è andato a far parte della memoria spettatoriale di chi si trova, ancora e ancora, a discutere di lui o delle sue opere.

Il suo nome è l’emblema di quello che Guglielmo Pescatore, ne L’ombra dell’autore, definisce efficacemente come brand autoriale. E se è vero che nell’epoca del postmoderno autore e spettatore mostrano quasi simbioticamente la necessità di riconoscersi in determinati marchi di fabbrica, questo è perché un regista, uno scrittore, un artista, ha saputo costruirsi nel tempo una carriera degna di questo nome. Ed è così allora, che Woody Allen resta sulla cresta dell’onda da oltre cinquant’anni.

Certo, gli scivoloni ci sono stati. Basti pensare alla trasferta romana, un po’ pizza e mandolino condita da Alessandra Mastronardi con un pizzico di Nel blu dipinto di blu. Ma l’allenismo, quel trade-mark che Pier Maria Bocchi spiega e illustra in Woody Allen. Quarant’anni di cinema, persiste solerte anche quando i risultati sono discontinui. Il «rapporto confidenziale» fra cineasta e pubblico, in cui «non c’è più un regista, ma una persona che esibisce nevrosi e paranoie» ha fatto sì che l’uso del long take e del piano sequenza, lo stile semplice e le battute pungenti abbiano costituito una sorta di spia di riconoscimento che – al di là della superficie della divisione tra alleniani delusi e woodyani convinti – unisce tutti gli spettatori nella considerazione generale di un modello ormai formato e stabilito.

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Woody Allen, Flavio Parenti, Allison Pil in “To Rome With Love” (2012)
©Medusa, foto Philippe Antonello

Non si tratta allora di stabilire se Woody è ancora Woody perché in fondo quel brand che abbiamo interiorizzato ha fatto sì che il repertorio tematico e stilistico di Allen sia portato a ripetersi con qualità più o meno sempre alta anche per effetto di quanto abbiamo noi stessi riconosciuto e creato. Sterile dunque parlarsi addosso, in dispute in cui il Match Point stesso è una coazione a ripetere.

Woody Allen stesso, del resto, non ha mai fatto mistero di annoiarsi parecchio di fronte a masturbazioni mentali di tale calibro. Lui dirige film perché si diverte, perché è questo quello che sa fare e spera di continuare a fare per ancora per tanto. Superata la soglia degli 80 anni non sono tanti i registi che possono vantare l’etichetta di maestro, sceneggiatore, attore, genio della settima arte. Ma lui di queste cose se ne frega, come degli psicodrammi della gente di Manhattan«che si crea costantemente problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi dell’Universo». Esiste qualcosa di meglio per descrivere Allen?

Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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