Jacovitti, fumettista ed illustratore Italiano, le chiamò panoramiche, e su di esse ci fondò una vita. Woody Allen, regista drammaturgo di ormai 82 anni, non appare interessato al loro nome, ma proprio con una di queste ha deciso di aprire la sua nuova storia, Wonder Wheel, ponendo sin da subito un nuovo tema: l’uomo nel legame, l’umanità nel condizionamento, il fato nel mondo.
Dunque un campo lungo senza inizio o fine, il cui horror vacui presenta la firma del suo autore, schiacciando e rivoltando lo spettatore tra figure senza volto e corpi immersi in colori pastello che innalzano Vittorio Storaro, direttore della fotografia, a vero narratore di questa splendida storia.
Un teatrino universale
Ciò a cui bisogna immediatamente prepararsi, affrontando Wonder Wheel, è infatti l’incontrastabile peso delle sue luci e dei suoi colori, di atmosfere figlie di un Vittorio Storaro che conferma dunque il proprio ruolo di “scrittore della luce”e sostenitore della parola.
Qui, un po’ come accadde con il bianco e nero di Manhattan, il colore, che in quel caso era assenza di esso, sembra così stringere un sodalizio di vita e morte con il testo, decidendo così di condurci in un mondo confuso. Una realtà di colori sognanti, il cui spazio narrativo è una Coney Island agli inizi degli anni ’50, contrapposti a tristi vite intrise di un esasperato realismo teatrale. E già la percepiamo l’altalena tra gli estremi della vita; da una parte il teatro tragico, greco, dall’altra il sogno, il musical. Dondola, dondola, ed atterra con un raggio di luce arancione incontrastato sui capelli di Kate Winslet, nuova splendida musa qui al centro di un’esistenza umana fatta di amore, depressione, recitazione, di un passato che viene raccontato e quasi venduto. Una vetrina, che dovremmo definire palco, che smentisce il ruolo della verità, mostrando una Coney Island che sfuma in una realtà quasi virtuale.
Ginny, interpretata da Kate Winslet, è un ex attrice, ora cameriera in un bar tra i tanti della boardwalk, la passerella di legno che affianca il luna park guardando verso il mare. Lei vive proprio qui, tra il parco e il mare, senza lasciarci capire quale dei due sia il sogno e quale la realtà, in una piccola casetta di legno ai piedi della gigantesca ruota che funge da fonte di luce per l’intero film. Prima blu, poi rossa, poi arancione, poi gialla, inquietantemente stravagante e multiforme come Ginny, ed il suo alcolizzato marito. Un Jim Belushi perfetto che afferra le redini del personaggio più particolare, potenzialmente amabile quanto odiabile. Poiché prima descritto come violento e irascibile, e poi, in scena, eccettuando il finale teso in cui tutto si mischia, propenso al perdono. Come accade con la figlia, interpretata da Juno Temple, che ritorna da lui dopo anni di silenzio e liti, ottenendo amore e protezione.
Due donne, un uomo. Tipico intreccio alla Allen, in cui però l’uomo non è lo sfaccettato Belushi, bensì l’attore biondo dagli occhi vitrei: Justin Timberlake. Ginny si innamora, perdutamente, e così ripone in lui ogni possibile speranza per il proprio futuro, passando da interpretare la parte della depressa cameriera, perfettamente stereotipata, a quella di una protagonista di qualche libro harmony che spera che il bel giovane toy boy le salvi la vita.
Un fato camuffato da fortuna
Incroci tra speranze e delusioni, vita e morte, in un gioco da Luna Park in cui Allen svolge la parte del giostraio ancora una volta divertito dalla banalità dell’uomo e del suo voler correre contro una fortuna che definisce il destino. La Τύχη, secondo i greci; chiamati nel campo del racconto non solo dalla sua stessa forma, drammaturgica, ma dal vario accavallarsi di conversazioni didascaliche poste in bocca al bagnino letterato interpretato da Justin Timberlake. Il fato, camuffato da fortuna, sembra così essere il vero nemico di questa storia, o ancor meglio il suo protagonista; cioè ciò che ci definisce e rende ineluttabile gran parte delle nostre azioni. Una consapevolezza che rende grande il dramma e così tragicomica la messa in scena di piccoli esseri umani che corrono in direzione opposta di quel che la vita veramente è, come criceti in gabbia. Dunque la sensazione non è quella di una storia composta da grandi personaggi dalla caratterizzazione indimenticabile, ma della scelta di un quadretto come tanti per rendere il particolare universale con lo strumento della parola e del teatro.
Vittorio Storaro, scrittore di luce
E così molto appare sopra le righe, sottolineando una confusa verosimiglianza del racconto, attraverso una costruzione degli ambienti fittizia ed immaginaria, propensa alla trasposizione emotiva di chi si muove nella storia. Le pennellate pastello di Storaro permettono così l’applicazione esatta dell sua teoria del colore; affidando sfumature precise per accerchiare i protagonisti di una luce che li descrive e confonde. Un giallo che parla di coscienza e colpe, di passati travagliati, che si rigetta in un blu che è essenza umana e intelligenza. Una passerella di colori che camminando alternano la propria lucentezza a quello che Storaro ama definire «il cuore dell’oscurità»: il nero. È meraviglioso infatti osservare come gli sbalzi d’umore intervallati da Ginny, negli splendidi monologhi di una Kate Winslet maestosa, causino un cambio di scena repentino, spegnendo il colore e lasciando sovrastare un grigio-nero, anche sotto il sole. E quest’ultimo punto è fondamentale, perché i colori sembrano agire al di là della scena reale, della natura, con luci nate dalla pioggia e grigiori partoriti dal sole.
Realtà, finzione, dramma, teatro e cinema. Un divagare di ambienti che rende la riflessione scenografica introdotta da La la land, nei primi giorni di questo 2017 ormai agli sgoccioli, ulteriormente profonda, lasciando che la luce sostituisca le canzoni e le lunghe performance recitative spacchino la sala riportando il tutto ad un teatro che mai fu così valido.
Splendido Allen, magnifico Storaro, indimenticabile Winslet; serve altro?
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