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Wonder: il vero senso della delicatezza

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2 minuti di lettura

Auggie Pullman ha 10 anni, ama la notte di Halloween e giocare alla playstation, e finalmente sta per affrontare il suo primo giorno di scuola. Un po’ tardi, viene da dire, per un bambino che a scuola dovrebbe esserci già da qualche anno.

Ma Auggie è affetto dalla sindrome di Treacher Collins, una malattia che comporta gravi anomalie cranio-facciali, e da quando è nato ha già subito ventisette operazioni chirurgiche. E se gli interventi gli hanno garantito la possibilità di vedere e respirare come tutti gli altri, nessuno di questi ha potuto dargli l’aspetto di un bimbo “normale”: il suo volto, nascosto per la maggior parte del tempo dentro un casco da astronauta, è ancora sfigurato.

“Brutto” è una parola che facciamo fatica ad usare. Eppure non esitiamo a pensarla fin troppo spesso. Ed in un mondo in cui l’aspetto estetico vale più della sostanza, in cui il bello viene prima dell’utile, essere brutti è una vera e propria maledizione. Il piccolo Auggie questa maledizione la sente addosso da quando è nato. E adesso è arrivato il momento di affrontarla, di fare il primo passo per andare incontro a quel mondo che non sa fare passi verso di lui. Al suo fianco ci sono mamma e papà (gli splendidi Owen Wilson e Julia Roberts) con il loro amore sincero, la cui immensa forza sta nel volerlo spingere a camminare da solo.

Inizia così una storia sul confronto che non si risparmia, anzi si sofferma sulle difficoltà, le violenze subite, la durezza di un percorso che è tanto meraviglioso quanto terribile. Wonder (2017) è un film per tutti: per i genitori, con le loro insicurezze e l’esigenza di proteggere, per chi della propria diversità ha sofferto e per chi con la diversità non ha avuto a che fare, e non sa come rapportarcisi.

Inevitabile il flirt con pellicole anni ottanta come The elephant Man (1980, regia di David Lynch) e soprattutto Dietro la maschera (1985 regia di Peter Bogdanovich), che affrontano la stessa tematica. Nel dirigere questo film però Stephen Chbosky trova una strada completamente nuova, riuscendo a rendere Wonder un rifugio per grandi e piccoli. La forza del film infatti è quella di essere a due dimensioni: quella degli adulti, statica e realista, e quella dei bambini, eroica e diretta, in cui tutto è possibile.

“Delicatezza” è una parola che tanto, troppo spesso diamo per scontata. A scuola impariamo matematica, storia e geografia, ma nessuno si prende la briga di insegnarci il modo giusto (se un modo giusto c’è) di ascoltare, di comprendere. Perché a parole sappiamo cosa significhi essere gentile, trattare bene gli altri. “Comportati bene”, ci viene detto fin da bambini, e nel limite del possibile tutti noi riteniamo, appunto, di comportarci bene.

Ma la delicatezza è ben altro. Va oltre il banale “limite del possibile”, quello dove noi, gli uomini e le donne aperti e ben educati del terzo millennio, ci sentiamo in diritto di fermarci. La delicatezza, quella vera, richiede tempo e fatica, per andare oltre ai nostri schemi di bello, giusto, piacevole. In un’ora e mezza di viaggio, Wonder ci ricorda tutto questo. E lo fa raccontando una storia che resta impressa, forte dall’inizio alla fine senza mai essere banale o pesante, che lascia sempre il giusto respiro tra i sorrisi e le lacrime.

Marta Mantero

 

Marta Mantero

Sulla carta c'è una ventitreenne laureata in scienze delle relazioni internazionali.
Sulla pelle ci sono i libri, la musica, il buon cinema e il mare mosso.
Nella pancia c'è il teatro.

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