Ad affiancare in concorso a Venezia il dolce e tenue bianco e nero di Alfonso Cuarón e del suo Roma arrivano i decisi tratti di What you gonna do when the world’s on Fire?. Documentario di Roberto Minervini, secondo regista italiano in competizione, sul difficile luglio che nel 2016 portò ad alcuni scontri tra la popolazione afroamericana e la polizia di Baron Rouge, Louisiana.
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Indugiare sui ritratti
Judy, Ronaldo, Titus e le Black Panthers. Nomi, gruppi e idee al centro di un documentario che mischia le ragioni secolari della sofferenza di alcune comunità con la loro attuale e immutata condizione. Giriamo così nella Lousiana colpita dalla gentrificazione, dal dolore della morte e dal peso di colpe mai veramente giustificate. Riconosciamo le strade dello stato americano, ma solo come luogo del racconto scelto dal regista per poter osservare con maggior empatia un fenomeno ben più ampio e globale. Ne avviciniamo dunque le caratteristiche, sorridendo magari per quegli attimi in cui, per poco, ci viene permesso di indugiare sui ritratti di questi personaggi pieni di dolore, ma soprattutto di vita.
In What You Gonna Do When the World’s on Fire? sono così presenti più registri linguistici da poter seguire, incrociati tra loro per dare ampio spazio ad ogni possibile lettura, senza paura di mostrare la giustizia, ma anche le contraddizioni, di una battaglia che seguiamo senza poterne totalmente comprendere le forme. Minervini quindi torna spesso su frasi pronunciate, magari cambiando prospettiva, cercando la stessa idea detta con frasi diverse, reiterando quasi all’infinito temi già visibili sin dai primi minuti e che, se non contestualizzati in una precisa necessità di ricercare le diverse forme di un fenomeno, potrebbero essere scambiati per banale ripetitività.
Colto nel mezzo
Il regista della trilogia Texana non sembra aver dubbi: bisogna imporre un preciso dibattito alla società. Si muove così nella realtà che accerchia con la serena tensione di chi ha compreso il proprio ruolo in quest’arte, impegnandosi a narrare senza mai dover rincorrere lo spettatore in abbellimenti strutturali o visivi. Le storie, che in realtà sono alcune delle storie, non iniziano né finiscono da un punto all’altro, perché è nel loro tristemente esistere prima e dopo la visione del film che colpisce e ci apre alle difficili condizioni di persone colte con qui con un pedinamento silente.
Cine-realtà
Quando si parla di cogliere la realtà in un’istantanea si dimentica spesso che questo, oltre essere la possibilità di osservare un fatto catturato nel suo divenire, significa anche fermarne ogni sviluppo. Perché è certamente vero quanto affermò Gianni Amodio, ovvero che « la fotografia ti permette di fermare l’attimo, cogliere l’istante, fermare il tempo», ma fare ciò, quando l’obiettivo non si lega ad una volontà di fermarsi nell’eternità, significa anche relegare il reale, cessarne ogni trasformazione poco dopo averlo reso una vecchia immagine in bianco e nero. E il cinema documentaristico, e Minervini in questo caso, non può permetterselo. Ecco allora che prende forma la riflessione registica del regista italiano, già mostrata nelle opere precedenti e qui in What You Gonna Do When the World’s on Fire è trasformata in un bianco e nero che, muovendosi nelle difficoltà sociali, sembra slegare i nodi della realtà catturata.
Tutto parte dunque dal sapersi fermare, guardare il mondo congelato per poterne studiare i tratti, e poi riprendere a muoversi dando vita all’istantanea. Così «prima ci sono gli incontri, l’avventura di vita in prima linea» e solo «poi arriva il progetto »; prima lo studio, poi il movimento e così il film. Un modo di guardare al mondo che, come solo il buon cinema riesce a fare, mostra un piccola utopia realizzata e, ad ascoltare le parole del suo creatore, quanto mai urgente. Perché per quanto il titolo, che fare quando il mondo è in fiamme, appaia ipotetico ed iperbolico, «le fiamme – afferma Minervini – sono vicine. E viste dal basso bruciano davvero».