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Waiting for Shylock

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Il nucleo di problematicità del Mercante di Venezia, come si sa, ruota intorno alla figura di Shylock, l’usuraio ebreo che si rivolge al tribunale per l’applicazione di una clausola da brivido: Antonio non può assolvere il suo debito e Shylock pretende (come da contratto) una libbra della sua carne. Egli giganteggia in questa posizione ambigua, interpretato di volta in volta come carnefice oppure come vittima esasperata dall’odio razziale. Alla fine, manipolato dall’abilità retorica di un falso avvocato (Porzia), il tribunale sarà spietato verso Shylock, che si appellava alle leggi della città e proprio da esse verrà punito, privato della figlia e di tutti i beni, e obbligato alla conversione.

Nel 2016, centenario shakespeariano, a Venezia si è organizzato un nuovo processo sul caso di Shylock, riprova di un interesse vivissimo intorno all’opera. La corte era formata da giudici convocati perfino dalla Corte Suprema degli Usa: annullata la clausola della libbra di carne, la sentenza ha deciso per la restituzione dei beni a Shylock, compresi i ducati prestati ad Antonio, e l’annullamento della conversione forzata; Porzia invece, che si è finta avvocato e ha manipolato la corte del Doge, è stata condannata a studiare Legge in università prestigiose.

All’interno della rassegna Palco Off (Autori, Attori e Storie di Sicilia) del Teatro Libero, abbiamo visto la rilettura dell’inglese Gareth Armstrong (1998), che lo scorso anno si è segnalata all’interno del Premio Italia Milano Off 2016. Il testo è brillante e sfrutta con intelligenza l’arma dell’ironia. Il titolo è Shylock, perché è lui il protagonista indiscusso del dramma. Ma Shylock stasera non c’è, forse è in ritardo. Per ingannare l’attesa, viene buttato in scena un personaggio timido e impacciato, interpretato con grazia da Mauro Parrinello (giovane regista e attore), kippah e occhialini, gilet sopra la camicia con maniche troppo lunghe. A disagio, oscilla goffamente le braccia, sorride nervoso e cerca di intrattenere il pubblico, con lo sguardo che freme verso le quinte, per controllare che la star della serata arrivi finalmente. Una impasse psicologica tenuta con misura, senza trascendere in siparietti comici prevedibili.

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Per imbastire la sua storia, (fintamente) improvvisata, lo soccorrono delle scatole impilate in bell’ordine e con tanto di etichette, spesso surreali: Cose perdute, Gondole galeotte, Ebrei cattivi, Sogni infranti, Rimborsi di viaggio, Cose storte, ma anche Barbra Streisand. È un magazzino di memoria frammentata, che riporta alla mente lo splendido film (tratto dal romanzo di Jonathan Safran Froer) Ogni cosa è illuminata (regia di Liev Schreiber, 2005), di cui viene citato anche il refrain della colonna sonora. Ogni scatola è oggetto scenico e segno meta-letterario, perché contiene pezzi della storia che andiamo ad ascoltare, come il contenitore che inaugura lo spettacolo, “Storie inventate”: è da questo file che deriva tutto.

La bizzarra figura che ci introduce con delicatezza e ironia al mondo di Shakespeare, ha quattrocento anni e non li dimostra. È un personaggio abituato a restare in ombra e spesso “tagliato” dai registi: Tubal, ricco mercante ebreo amico di Shylock, a cui il Bardo riserva solo otto battute. Può parlare con cognizione di causa, in quanto testimone di quella vicenda e prende su di sé l’onere e l’onore di raccontarci i fatti.

Il gioco metateatrale è divertito, senza le complessità cerebrali di un Pirandello: il personaggio è qui, vivo davanti a noi, e anzi ci invita a reagire («rispondete, questo è un teatro interattivo»). Creatura di carta, è però assai consapevole del mondo e del corso della Storia, riassunta in parentesi didattiche sempre punteggiate di ironia, che non risparmiano “zio Adolf”, ma anche Trump o la prestanza di Charlton Heston…

© Manuela Giusto

Nella foga un po’ didattica («Forse non sapete che…», «Non so se avete sentito che…») di spiegarci tutto per bene, sembra smarrire il filo del discorso in un’apparente serie di divagazioni accessorie, che invece servono per ampliare il quadro a un’ironica ricostruzione dei pregiudizi antisemiti. Dalla scatola “Ebrei cattivi” scaturiscono il Barabba di Marlowe e della Bibbia, ed ecco finalmente Shylock, un pupazzo con naso adunco e parrucca rossa animato dalla mano di Tubal, mentre la voce off di Federico Giani ne recita le battute.

Tubal disegna la situazione, con integrazioni soggettive e dichiarando la propria «parzialità» pro-Shylock. Finché, in un crescendo di suspence ricreato da continui rinvii, ecco il punto clou: emozionato, Tubal recita di nuovo per noi le sue otto battute, in cui, di ritorno da Genova, riferisce a Shylock una notizia buona e una cattiva. Animato dalle migliori intenzioni, Tubal però combina un pasticcio, mescola bene e male, in un’alternanza che per Shylock è una tortura e fomenta forse anche il suo livore.

© Manuela Giusto

Per giustizia verso il suo amico, Tubal recita anche la scena del tribunale, e la scoppiettante ironia ora cede il posto a un’atmosfera di tensione tragica, irrorata da una luce rosso sangue. E poi si inseguono le domande: finito il processo, quando nel Quinto Atto tutti sono felici e si procede verso il lieto fine, dov’è Shylock? A macerarsi nel suo dolore? Oppure, ora che è stato forzato alla conversione, non vive più nel ghetto? Forse non ha nemmeno più bisogno della spalla Tubal, forse vive meglio, lontano dalle battute razziste. Non lo sapremo. Siamo ancora in attesa di Shylock, che questa sera non verrà, forse perché è riuscito a svincolarsi dal proprio personaggio.

 

Shylock
di Gareth Armstrong
con Mauro Parrinello
traduzione e adattamento di Francesca Montanino
Produzione Compagnia dei Demoni, Roma/Torino
Teatro Libero, Milano
17-19 febbraio 2017

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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