fbpx
Placeholder Photo

“I vitelloni” di Federico Fellini, ovvero la provincia come non-luogo del cuore

6 minuti di lettura

di Ilaria Moretti

Senza Rimini, I vitelloni (1953) non sarebbero mai esistiti.

Magari ci sarebbero stati altri ragazzi piccolo borghesi imbevuti di noia e provincialismo, perdigiorno per definizione, svogliati eppure attraversati da certi vaghi desideri di fuga. Tuttavia, senza Rimini, Federico Fellini non avrebbe potuto descrivere il languore di certe domeniche silenziose, l’amarezza stanca della spiaggia d’inverno o ancora la desolazione delle vie strette e solitarie, senza un’anima, attraversate solo da un avido vento cattivo. Detto in altre parole senza un’infanzia in provincia, senza, cioè, la conoscenza profonda di una realtà più immaginifica che geografica, Fellini non avrebbe potuto dire – e dire così – quel che è il vuoto di certi paesaggi abbandonati, ora prigione ora comodo nido a cui ritornare.

I vitelloni - Sera in provincia
I vitelloni – Sera in provincia

Chi ha conosciuto fin da bambino gli ampi spazi della città – panorami metropolitani di caos e rumore – difficilmente potrà capire, se non fingendo un’improbabile immedesimazione, cosa sia realmente la provincia, cosa rappresenti al di là dei luoghi e delle conformazioni fisiche. Per comprenderla è necessario esserci nati, aver toccato con mano certi tramonti solitari, aver sonnecchiato senza scopo al bar del paese o, scostando la tenda in una notte d’inverno, averne percepito il buio, la sconfinata desolazione, l’insondabile distanza. Perché la provincia non è un semplice luogo abitativo, una posizione indicata a caratteri lievi sulle cartine geografiche. È piuttosto un non-luogo del cuore, condizione stessa dell’esistere –  meglio dello stare – che spesso rima con attesa, sospensione: il vuoto.

Lo sapeva bene Fellini (Rimini 1920 – Roma 1993) che fece dei luoghi della sua infanzia un’inesauribile fonte d’ispirazione, uno spazio deputato alla creazione da cui scappare per poi tornare, seppur in fin di vita. «Avrebbe potuto scegliere qualsiasi luogo per la sua convalescenza, qualsiasi città, eppure scelse Rimini per riposarsi, per rimettersi in forze[1] Nel 1993, un Fellini malato e infragilito da tre operazioni per ridurre un aneurisma alla aorta addominale scelse Rimini per chiudere un cerchio, perché, come amava ricordare, il serpente che si morde la coda – simbolo orientale – è anche sinonimo di saggezza, di conoscenza. Inutile dunque rifiutare il proprio passato, ciò che si è stati. Il passato, al contrario, «occorre rimetterlo sempre in circolo: per ridiscuterlo, per rivederlo in una nuova luce, perché l’esperienza sia intera».

Renzo Renzi, scrittore e critico cinematografico, anch’egli uomo di provincia, aveva suggerito una curiosa interpretazione alla scena finale del film, quella, cioè, in cui Moraldo (Franco Interlenghi), il più giovane della combriccola dei cinque vitelloni, sceglie davvero di partire, di andare non si sa dove: «Non lo so! Debbo partire. Vado via». Alla stazione Guido (Guido Martufi), il giovanissimo ferroviere, interroga Moraldo sul motivo della sua decisione. Ma quest’ultimo non risponde, è evasivo. Nemmeno lui conosce le sue sorti, sa solo che dalla provincia bisogna andarsene: per cercare fortuna, per crescere, o magari, semplicemente, per combattere contro quei sentimenti asfittici respirati per tanti anni, gli stessi che soffocano qualsiasi aspirazione, che piegano l’io senza possibilità di differenziarsi.

I vitelloni - Moraldo se ne va
I vitelloni – Moraldo se ne va

Da una parte, dunque, c’è un treno in partenza che scorre rapido sui binari e, sporto oltre il finestrino, si staglia un attonito Moraldo, un po’ smarrito, un po’ confuso, che saluta in Guido la vita vecchia, l’infanzia, i luoghi del passato. Moraldo diviene, secondo l’interpretazione di Renzi, l’alter ego del Fellini che scappa, che si distacca dalla provincia abbandonando il mondo gretto e meschino di cui, fino ad allora, ha fatto parte. Eppure, subito dopo, l’inquadratura della cinepresa si concentra sul giovane capostazione (anch’egli incarnazione dell’autore) che ritorna verso il paese camminando sopra una rotaia – la strada già segnata – che costringe ad una direzione precisa pena il deragliamento, la perdizione. Ebbene per Renzi i due personaggi – il ragazzino e l’uomo – si incontrano pur distanziandosi, combaciano perfettamente come due facce della stessa medaglia. Sono, a ben vedere, gli ossimori che formano la personalità del regista. Da un lato v’è dunque il Fellini delle partenze, colui che avrà bisogno della città, della grande metropoli per creare e comprendere. Dall’altro, invece, permane il Fellini della provincia, colui che saprà trasformare il luogo da cui più si è distanziato in inesauribile fonte d’ispirazione.

In un’immaginifica Rimini ricostruita più per assonanze che per fedeltà paesaggistica, si consumano dunque le vicende dei cinque vitelloni: Alberto (Alberto Sordi), Leopoldo (Leopoldo Trieste) l’intellettuale della compagnia, Fausto (Franco Fabrizi) capo gruppo e «guida spirituale», Riccardo (Riccardo Fellini) il tenore, e infine Moraldo, il più giovane di tutti. L’unico, appunto, che avrà il coraggio di partire.

Quello dei vitelloni è un mondo piccolo borghese. Una dimensione, quest’ultima, che non consiste soltanto nelle «canagliate» di un gruppo di ragazzi senza impiego, pigri e irresponsabili, perennemente cristallizzati nella condizione di figli – dunque non-genitori, non-lavoratori, eterni-bambini – quanto piuttosto nell’ambiente trapuntato da sentimenti conformistici e piccini che, al di là delle semplici interpretazioni, fa da padrone a tutta la vicenda. È dunque il mondo di Sandr-ina, la mogliettina tradita e lacrimosa di Fausto, della mammina despota di Alberto (Paola Borboni), tanto cara e tanto fragile eppure dura e ottusa nei confronti della seconda figlia Olga (Claude Farell). È l’universo del paparino di Moraldo (Enrico Viarisio) «tanto occupato ch’eppure vuole tanto bene», della manina che i fidanzatini si danno andando a passeggio per le vie del centro. Un mondo che, malgrado l’ottusità e la chiusura, resta carico di garbo e di buone maniere: i ragazzacci vengono ancora puniti a scapellotti con la cintura, tra coniugi si gioca a carte e si sta insieme la sera, senza preteste e grilli per la testa. Lo si fa, semplicemente, perché «ci si vuole bene».

I vitelloni - Leopoldo, l'intellettuale
I vitelloni – Leopoldo, l’intellettuale

In questa provincia sonnolenta anche le aspirazioni dei più forti hanno vita corta. Così Leopoldo, l’intellettuale aspirante scrittore, riuscirà sì a far leggere la sua commedia al grande attore (Achille Majeroni) capitato un po’ per caso nel «vecchio teatraccio di provincia » ma poi, intimorito dal suo sorriso lascivo e dai suoi malcelati propositi, si intimorisce – ha paura – e scappa. A nulla serve la disperata confessione che il ragazzo, inizialmente animato da buone speranze, urla all’attore: «è duro, sai, vivere nell’incomprensione, in questa provincia sorda, chiusa ad ogni manifestazione d’arte, a ogni voce». Il sentimento della solitudine permane, agguanta ogni cosa, si incunea tra le strade notturne battute dal vento. Persino gli amici, i compagni di sempre, non comprendono – «chi non ama l’arte non ama la vita!» intimava appunto il grande attore – i giorni scorrono tutti uguali, l’inverno è eterno. Un artista non può nutrire i propri fantasmi nel vuoto assoluto, gli anni passano e «una mattina ti svegli: eri un ragazzo e non lo sei più».

Moraldo-Fellini, invece, riesce a scappare dalla provincia compiendo il suo apprendistato sentimentale e creativo in una Roma lontana e vagheggiata, capitale di sogni e di inconfessati desideri. È quella stessa Roma che più avanti – qualche film più in là (La dolce vita, 1960) – rivelerà inesorabilmente tutti i suoi falsi miti, le impalcature di una classe borghese allo sbaraglio, annoiata e perversa, ubriaca di vita e deprivata da ogni sentimento. Il paesaggio quieto della vecchia Rimini (l’infanzia, la giovinezza) lascia spazio a grandi panorami incerti. Roma (la maturità, l’età adulta) è bellezza e sfacelo: fontane zampillanti e donnone procaci; vuoti pratoni da periferia pasoliniana; casermoni in costruzione; tristi scenari da clownerie solitaria che oramai non irretiscono più nessuno.

La dolce vita - scena della festa
La dolce vita – scena della festa

La vita di città non è migliore di quella di campagna, forse perché fittizia, ingannevole. Il grande gioco del successo viene disvelato, i sogni non esistono più poiché si lacerano palesando così la loro fredda vacuità. La città diviene metafora nel cuscino sventrato da Marcello Mastroianni de La dolce vita: dalle sue fodere non fuoriescono dobloni d’oro ma solo fragili piume d’oca lanciate a mo’ di sfida verso il soffitto: è la fine dell’avventura.

La metropoli non è dunque meno estranea per Fellini, non meno nemica. Forse, a suo modo, pure i grandi orizzonti mostrano la loro inusitata grettezza, le facili meschinerie, le consuetudini che fanno del mondo un posto tutto simile, uguale nelle piccole e nelle grandi miserie. Dunque la provincia – ora odiata, ora vagheggiata – riacquista così la sembianza di una terra promessa a cui ritornare con grazia, terreno fertile che si fa custode di ricordi e bellezze perdute.

Ricordi, quelli di Fellini, che hanno il sapore del Vermut e dei ritagli dei biscotti. Sono le istantanee di lunghe scorribande per i prati, in alta collina, in due sulla stessa bicicletta: chi pedala con il fiato corto e chi, seduto sulla canna, tiene sottobraccio il giradischi. Senza soldi, sfibrati di fatica, i ragazzi di campagna si sdraiano nell’erba e ascoltano vecchi dischi, mangiano biscotti, brindano alla salute[2]. Città e provincia si confondo, perdono i loro confini. Si uniscono così in un piccolo sogno di giovinezza impresso per sempre su brevi fotogrammi di pellicola.

I vittelloni sul mare d'inverno (1977)
I vittelloni sul mare d’inverno (1977) © Federico Fellini

 

 

[1] Testimonianza di Titta Benzi, amico d’infanzia di Fellini.

[2] Felliniana, Capitolo 2: ricordi d’infanzia di Titta Benzi e Federico Fellini.

 

 

 

 

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

3 Comments

  1. Sono una studiosa di Luciano Bianciardi e mi colpisce sempre di più le notevoli analogie tra l’avventura umana e artistiche di questo scrittore e quella di Fellini, soprattutto indagate secondo la prospettiva della provincia, locus imprescindibile per capire la poetica di entrambi. L’articolo letto riprende con grande efficacia il tema e la sua importanza/invadenza all’interno della sua visione del mondo.

  2. Sono una studiosa di Luciano Bianciardi e mi colpisce sempre di più le notevoli analogie tra l’avventura umana e artistiche di questo scrittore e quella di Fellini, soprattutto indagate secondo la prospettiva della provincia, locus imprescindibile per capire la poetica di entrambi. L’articolo letto riprende con grande efficacia il tema e la sua importanza/invadenza all’interno della sua visione del mondo. (non ho scritto finora questo commento)

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.