Pubblicato nel 1975, il romanzo La vita davanti a sé di Romain Gary prende vita a teatro grazie a Silvio Orlando. Dal 23 al 26 febbraio, al Teatro Sociale di Trento, lo spettacolo, vincitore del Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2022 come Miglior Monologo, regala momenti di risate, tenerezza e riflessione sapientemente alternati e uniti.
Storia di un «amore improbabile»
La vita davanti a sé racconta un amore improbabile, quello tra Mohammed (Silvio Orlando), detto Momò, un bambino arabo di dieci anni, e Madame Rosa, una vecchia ex prostituta ebrea sopravvissuta ad Auschwitz che si guadagna da vivere prendendosi cura dei figli indesiderati delle prostitute. È in questo «piccolo rifugio per figli di puttana» che Momò vive la sua infanzia, conoscendo le ingiustizie e le difficoltà di un quartiere multietnico come Belleville, che raccoglie tutti coloro che la società non accetta e cerca di ignorare. Momò è un bambino sensibile, bisognoso d’affetto. Affetto che ricerca anche in atteggiamenti sbagliati, come gli schiaffi, ma che lui ritiene essere un segno d’interesse e quindi d’amore, come quelli di una madre al figlio che combina qualche marachella.
Sin da subito lo spettatore è catapultato nella sua vita, che conosce attraverso una visione soggettiva e totalizzante. Narratore egli stesso, Momò racconta il dramma umano con il candore, la sincerità e gli occhi innocenti e sognanti di un bambino, che conosce la vita ma la affronta a proprio modo: come un gioco, ma non senza una punta di cinismo. Quando, infatti, un adulto gli ricorda che ha tutta la vita davanti, il piccolo, rivolgendosi al pubblico esclama: «Cercava di farmi paura quel porco o cosa?». Silvio Orlando, con il tono e le movenze bambinesche, conduce in un viaggio comico ma anche drammatico, commovente e ironico, all’interno della vita di coloro che sono tipicamente visti come massa indistinta e diversa e come tale evitata, dandogli un nome, un volto e una storia.
«La vita davanti a sé» tra musica e luci
Parte integrante della narrazione è la musica di Simone Campa (chitarra battente, percussioni), Daniele Mutino (fisarmonica), Diego Mascherpa (clarinetto, sax) e Kaw Sissoko (kora, Djembe), dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre. Tra celebri canzoni francesi e ritmi arabeggianti e africani, la musica accompagna, dà ritmo, cambia talvolta le scene e le atmosfere, oltre a spalleggiare Silvio Orlando con effetti sonori.
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Altro aspetto non trascurabile è la scenografia di Roberto Crea. Con una torre a sei piani, composta da quelli che sembrano scatoloni di tessuto semitrasparente, un po’ malconci e traballanti, dà un tono fatiscente ma vivo all’ambiente, animato, oltre che dalla musica e da Momò stesso, anche dalle luci. Queste cambiano continuamente e sono di varia natura, dalle lampadine che una alla volta si accendono in corrispondenza del piano del palazzo di cui si parla e delle persone che vi abitano, ai fari che illuminano e seguono il protagonista e il suo agire sul palco, passando per i quattro lunghi fili di lampadine che sintetizzano i giochi luministici di un circo.
Il bisogno di voler bene
Quella che Orlando porta in scena è da lui presentata, ancora prima che il sipario si apra, come «una delle più belle storie d’amore che siano mai state scritte». E quella tra Momò e Madame Rosa è davvero una storia d’amore, un amore non tradizionale ma viscerale, che nessuno dei due forse capisce veramente ma che è presente nel profondo di entrambi. Madame Rosa è a tutti gli effetti una madre per il piccolo, che la conosce come sé stesso, nei suoi modi di fare, le sue paure, riesce a leggerla come forse nessuno, e ne ha cura. Nonostante la loro condizione, i due protagonisti conoscono l’affetto e sanno essere generosi nel donarlo a coloro che amano, lasciando nello spettatore un grande senso di speranza, perché sempre «bisogna voler bene».
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