di Ilaria Moretti
Non date retta a certi cinéphiles da vecchia scuola che vi metteranno in guardia – non senza una punta di compiacimento – sul decadimento di Woody Allen considerato un regista “postumo” da almeno una quindicina d’anni (e di film). Se non si può negare che molte delle sue ultime pellicole si siano rivelate la stanca ripetizione di gag e battute già note al grande pubblico, è altresì vero che la sua produzione cinematografica presenti anche delle (buone) eccezioni.
Vicky Cristina Barcelona (2008) narra le vicende di una coppia di amiche americane in visita a Barcellona per l’estate. Vicky (Rebecca Hall) sta ultimando un Master in Cultura Catalana e spera di trovare, grazie al promettente soggiorno di tre mesi, spunti interessanti per la scrittura della sua tesi, mentre Cristina (Scarlett Johansson) è reduce da una fallimentare esperienza cinematografica che le ha lasciato più scontento che piacere. Se la prima – mora, tradizionalista, promessa sposa ad un tale Doug (Chris Messina), noiosissimo uomo di successo – sembra avere le idee chiare su ciò che vuole dalla vita, Cristina – bionda, morbida, vagamente infantile – pare crogiolarsi nel ruolo della ragazza anti-convenzionale alla ricerca di se stessa. Non c’è dunque da stupirsi se l’incontro con il pittore Juan Antonio (Javier Bardem) fresco di un recente divorzio con la bellissima Maria Elena (Penelope Cruz) – anch’essa affermata pittrice – desti, nella placida atmosfera vacanziera delle due ragazze, un intrigante scompiglio.
Allen pare divertirsi a bacchettare il puritanesimo dei suoi compatrioti che, confrontati alla vitalità irruenta dei personaggi spagnoli, risultano pigramente legati alle loro fragili convinzioni, a biechi entusiasmi borghesi capaci di sciogliersi al primo bicchiere di troppo. Juan Antonio vive di passioni, segue l’istinto e pare abbracciare la filosofia del «la vita è breve, noiosa, piena di dolori, e questa è l’occasione per qualcosa di speciale», Maria Elena è carnale, vorace, nevrotica e a tratti geniale: niente a che vedere con i piccoli sogni americani delle due amiche, le loro confortanti comodità, le ridondanti convenzioni.
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Vicky, inizialmente riluttante, cederà alle lusinghe di Juan Antonio, complici un fine settimana a Oviedo e una «chitarra meravigliosa» capace di incrinare la solida corazza benpensante che lei stessa credeva infrangibile. Cristina, già predisposta all’amore impossibile e viscerale, trova in Juan Antonio la risposta alle sue ricerche artistico-esistenziali. Si trasferisce, sotto invito di lui, nella grande casa dove il pittore viveva con la moglie e cerca la sua forma espressiva in piccole poesie composte la sera al tavolo della cucina, si cimenta nell’arte della fotografia e vive scottanti ore d’amore tra le braccia di quest’ultimo.
La figura di Maria Elena – reduce da un tentato suicidio – è funzionale alla struttura del plot. È l’elemento disgregante capace di sancire la definitiva rottura tra due opposti: la nuova America contro la vecchia Europa, il benpensantismo piccolo borghese contrapposto alla sfrontatezza dell’arte (supportata però, è il caso di dirlo, da un discreto agio economico: Juan Antonio ha una casa bellissima e un’ottima macchina. Vive davvero di sola pittura? È così affermato? È la sua arte ad avergli fornito ricchezza o è invece la ricchezza di famiglia ad avergli permesso di vivere da sprovveduto bohémien?). Maria Elena – il genio, il ciclone, colei che ha tutto insegnato a Juan Antonio (più di quanto lui stesso voglia ammettere) – è cupa, affascinante, autodistruttiva quanto basta a crearne un personaggio mitico, quasi inafferrabile. La burrosa Cristina, i suoi jeans dal taglio californiano e le sue infradito di gomma possono poco contro l’originalità dei colori di lei, i suoi ampi vestiti metafisici, il suo già essere personaggio da quadro, eroina da romanzo.
Eppure, l’improbabile trio si fonde, si trova, crea uno scomposto equilibrio, uno spensierato ménage à trois dove tutto pare reggersi sull’idea che la vita viene prima di tutto, così la passione, il senso estetico che sovrasta la ragione. Cristina stessa si sente quasi liberata, non più «soffocata dalla cultura americana puritana e materialista» ma finalmente «un’anima europea» al pari di certi artisti capaci di figurarsi l’esistenza attraverso le norme del romanticismo, della tragicità e del libero pensiero.
Eppure, sembra dirci Allen, l’Europa non è l’America e le passioni, per quanto sconvolgenti e rivoluzionarie, non sono per tutti. Ci vuole coraggio per amare, coraggio per vivere d’arte, per farla, produrla, abitarla fino a sondarne l’abisso e le contraddizioni, le contorte fragilità. Non tutti sono in grado di combattere contro i dettami della contemporaneità, di liberarsi da certi moralismi su cui si regge la società odierna alla stregua di certi bohémiens spagnoli che paiono insegnarci che c’è altro nel mondo, che l’esistenza vale la follia, che la luce, una certa musica, la prospettiva di una scultura possono ispirarci, infonderci una nuova consapevolezza, insegnarci ad essere uomini. Ci vuole forza e una personalità ben definita per dire “no!” (ancora e ancora!) agli agi della vita borghese, posata, tranquilla, con le carte in regola, la casa in centro città arredata a dovere, un uomo dal solido conto in banca che ci ama e che di certo non ci tradirà.
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Non tutti hanno la tempra dell’anziano padre di Juan Antonio, un poeta che scrive «poesie bellissime» senza mai averle pubblicate. La sua è una metaforica stoccata contro il genere umano incapace di convivere civilmente. Il suo gesto di sdegno, la sua assenza dal mondo editoriale (e dallo show business dell’arte in generale) sottintende un «odio» verso la società degli uomini che dopo migliaia di anni «non ha ancora imparato ad amare». Dunque la battaglia, il tacito “no!” al mondo del vivi, passa attraverso la negazione della sua stessa opera: sottrarre bellezza ad un’umanità incapace di vedere.
Se Vicky ripiega sul bonario marito affarista, stordita da consigli per l’arredamento e dalle chiacchiere vuote di amici borghesi in vena di buoni consigli, anche Cristina sembra essere inadatta (forse incapace) a seguire le vie della passione, contravvenendo così ai valori estetico-artistici di cui lei stessa si faceva paladina.
Del resto, per poter vivere come Juan Antonio e Maria Elena non basta il convincimento: ci vuole la carne, il sangue, la vita. Non basta – al pari di Cristina – millantare desideri rivoluzionari, proporsi come uno spirito artistico in cerca d’ispirazione senza però, a conti fatti, essere capace di mantenere fede a se stessi, senza riuscire a trovare la propria vocazione e riducendosi ad essere il pallido fantoccio di un vago desiderio infantile. Il matrimonio di Vicky è certamente in crisi, la notte di sesso con Juan Antonio ha lasciato tracce indelebili, la figura del pittore (e tutto ciò che trascina con sé) l’affascina e la sconvolge ma lei altro non è che una banale ragazza di buona famiglia: camicette bianche inamidate e pensieri ritti nella testa. Non la passionaria moglie di Juan Antonio, non pistolettate, scariche di pittura e coltelli nella pancia ma solo buoni sentimenti e il desiderio di un’esistenza serena. «Questa non è la mia vita!» strillerà impazzita dinnanzi all’ennesima scenata di gelosia di Maria Elena. Ed è giusto: la sua vita è altrove, pronta ad attenderla al di là dell’oceano con una bella casa, la servitù, un master che – forse – le permetterà di insegnare, la sicurezza economica di un marito che (dopotutto) non è poi così male.
Il rischio di un destino diverso è contemplato soltanto nell’incoscienza di un’estate. Al sopraggiungere dell’autunno ciascuno ritornerà alla propria vita, ai propri fantasmi, alle proprie monotone sicurezze, così care, così quiete, così – drammaticamente – noiose, soporifere e (quel che è peggio) sconfortantemente borghesi.
Photos: © Vicky Cristina Barcelona, Woody Allen, 2008.
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