Comincia a emergere una certa apprensione; o forse una preoccupazione, ed anche piuttosto acuta, per quanto sta accadendo nel mondo della scuola. Preoccupazione che solo in parte è dovuta alle enormi sfide di carattere organizzativo: si tratta, in effetti, di una questione più strettamente legata alla didattica e al fare scuola. Ci sono voluti anni per far «entrare» il corpo nella scuola, per far capire in maniera chiara e inequivocabile che se attraverso il corpo noi diamo «significazione al mondo» – per utilizzare le parole di Maurice Merleau-Ponty -, sviluppiamo i nostri saperi e costruiamo la nostra intera esistenza, non è possibile escludere il corpo dalla scuola. Scuola che invece è stata a lungo arroccata in una posizione intransigente, di profondo dualismo cartesiano, di divisione della mente dal corpo, con il primato concesso alla mente, vero e proprio oggetto di interesse – per certi versi di ossessione – da parte degli insegnanti, tutti presi a travasare informazioni e nozioni in cervelli scissi da tutto il resto. Studenti scorporati, privi di materialità, anestetizzati, a cui veniva chiesto di mettere da parte qualsiasi interferenza che potesse in qualche modo intaccare la relazione tra la mente del docente e la mente del discente, proprio come dualismo cartesiano.
Lungamente dimenticato, utilizzato come un contenitore in cui riversare conoscenze, il corpo a scuola – e nella didattica – ha fatto una fatica enorme a emergere. Si è dovuto far ricorso a tutto il gotha dello studio della corporeità per fare un minimo di breccia nelle roccaforti ideologiche della scuola. Oltre alle riflessioni del già citato Merleau-Ponty, si è fatto ricorso anche all’idee di Michel Foucault, André Breton, Pierre Bordieu, Umberto Galimberti, Damasio. Si sono mobilitati anche molti campi di studio: la sociologia, la psicologia, le neuroscienze, la filosofia. È persino nata una nuova corrente di studio: gli embodiment studies. E sulla questione si sono espressi, ovviamente, numerosi pedagogisti tra cui Robinson, Freire, Dewey, giusto per citarne alcuni. Tutta questa grande mobilitazione per dimostrare e argomentare sull’impossibilità di una didattica senza corpo, sull’inutilità di pretendere di avere un apprendimento basato sulla sola mente, sull’inconcludenza storica, culturale, sociale e antropologica di una scissione tra mente e corpo, su di un dualismo cartesiano, che specie a scuola, non ha ragione di essere.
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Il corpo al tempo del Covid-19
Questo enorme sforzo stava mostrando nella scuola italiana i suoi primi frutti. Finalmente, si erano aperte delle brecce, delle piccole fessure nell’impostazione della didattica. E in queste spaccature si stava riversando il corpo, e tutta la ricchezza esistenziale che in esso è contenuta. Nella didattica avevano trovato spazio le emozioni, non solo come oggetto di studio, ma come elemento di discussione, di confronto e come tramite attraverso cui sviluppare nuovi apprendimenti. La corporeità stava acquistando nuovi spazi, nuove possibilità di espressione nei rapporti con i compagni di classe ma anche in quelli con gli insegnanti. La necessità del movimento come elemento fondante dell’esistenza stessa dell’individuo aveva ottenuto un riconoscimento – non completo, per carità – anche tra quegli insegnamenti definiti, per impostazione, teorici, che tanto distanti sembrano volersi collocare dalla materialità esistenziale. Persino sulla grande sfida della multiculturalità e dell’integrazione si era visto nel corpo – punto di incontro tra natura e cultura, come ci ricorda Foucault – un potentissimo dispositivo educativo, in grado di avviare un dialogo laddove altri mezzi avevano fallito.
Il corpo, insomma, stava prendendo spazio, e attraverso di esso era stato avviato un lento ma inesorabile processo di cambiamento di tutta l’impalcatura didattica della scuola. Perché, una volta che il corpo entra in classe, tutto cambia (e questo spiega i motivi di tanta resistenza). Se dai attenzione al corpo non puoi pretendere che esso rimanga inerte per ore ad ascoltare passivamente una lezione: deve muoversi! Non puoi pretendere che le emozioni vengano represse perché esse si esprimono attraverso la corporeità, i gesti, la mimica, la prossemica, il tatto. E lo stesso dicasi per la personalità degli alunni la quale si manifesta attraverso la gestualità. E su questo Milan Kundera è stato piuttosto illuminante quando ha fatto notare che il «gesto è più individuale dell’individuo».
La pandemia determinata dalla diffusione capillare del COVID-19 sta stravolgendo dalle fondamenta la società e con essa la scuola. E su quanto sta accadendo trova alimento molta preoccupazione. Evidentemente è necessario un totale ripensamento dei tempi, dei luoghi e delle modalità di fare scuola, questo è innegabile: la salute è un diritto fondamentale inalienabile, che deve essere tutelato e salvaguardato. Tuttavia, il dibattito che sta accompagnando questo cambiamento sembra non prestare la dovuta attenzione ad alcune questioni fondamentali. C’è un gran parlare di come riorganizzare gli spazi in classe, di come rendere possibile la didattica a distanza anche per quegli studenti che non hanno accesso alla tecnologia necessaria, di come gestire i turni, ecc. C’è poi tutta la questione degli esami di maturità e di terza media e di come dare dei voti a milioni di studenti che da marzo sono costretti a stare a casa, senza un reale contatto con gli insegnanti. Il dibattito sull’opportunità di un 6 politico, di una promozione d’ufficio o sull’eventualità di un annullamento di questo anno scolastico ha chiamato in causa numerosi esperti e politici, con posizioni spesso diametralmente opposte.
Lungi dal ritenere inutile queste forme di dibattito – stiamo vivendo un periodo che non ha precedenti nella storia recente, e la circolazione di idee è un bene – è opportuno però esprimere in questa sede una perplessità, o per lo meno reclamare attenzione su di una mancanza. Se da un lato è necessario preoccuparsi di come riorganizzare gli spazi a scuola, non sarebbe anche necessario, dall’altro, preoccuparsi di come riorganizzare la didattica? Si tratta di una questione ugualmente importante. Perché, se la prospettiva è quella di tornare a un’impostazione didattica in cui si sta in classe, seduti, immobili sui propri banchi – tra l’altro singoli – isolati ad ascoltare concetti vuoti trasmessi da un insegnante ingessato alla propria cattedra, anche se si riuscisse – come auspicabile – a fermare una nuova trasmissione del virus, favoriremmo, d’altro canto, una nuova forma di contagio, più subdola, che rischia di portare la scuola e l’insegnamento indietro di decenni.
Con questo non si vuole certamente argomentare in favore di un totale superamento del distanziamento sociale: è una misura fondamentale, specie in un contesto affollato come la scuola. Però non possiamo neanche correre il rischio che con il distanziamento sociale si torni a rimarcare una nuova scissione tra la mente e il corpo degli alunni. È un rischio che non ci possiamo permettere! Dopo anni di battaglie, non si può tornare indietro. Quale, dunque, la soluzione? Non è semplice, e per questo occorre dedicare alla questione tempo, energie e risorse. Così come ci si affanna per riorganizzare la struttura della scuola, i suoi tempi, i suoi spazi, occorre dedicarsi anche ad un ripensamento della didattica, che è la vera essenza della scuola. Perché il punto non è solo quello della didattica a distanza, di come permettere la trasmissione dei saperi, di come esprimere i voti. Ci sono anche tutte le questioni legate alla relazione educativa, dell’apprendimento tra pari, alle emozioni, alla conoscenza del mondo attraverso il corpo e i sensi che non possono essere derubricati e che richiedono massima attenzione.
Simone Digennaro
Immagine in copertina: Photo by Feliphe Schiarolli on Unsplash
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