È solito pensare che lo scontro tra Festival – Venezia contro Cannes, Berlino contro Toronto e via discorrendo – avvenga sui grandi nomi d’autore che le differenti kermesse si litigano di anno in anno. Ma se ciò è vero, con Venezia e Cannes che a detta di molti si contenderebbero avidamente gli Oscar, è pur vero anche che i confronti più rivoluzionari si giocano spesso all’ombra delle grandi polemiche.
Può capitare dunque che mentre Quentin Tarantino viene posto al centro del dibattito tra Cannes e Venezia, un piccolo esperimento come la Mostra di Realtà Virtuale (VeniceVR), avviata al Lido ormai quattro anni fa, si faccia vero terreno di prova per festival in cerca di novità capaci di anticipare e promuovere nuove tendenze.
Un futuro ancora ignorato, ma non da tutti
Non fa ancora abbastanza notizia, forse per il costo tuttora eccessivo della sua strumentazione, ma la realtà virtuale è passata in poco meno di cinque anni da essere semplice esperimento di applicazioni tecnologiche a mercato di produzione artistica che solo in Italia vede attualmente cifre d’investimento superiori ai 100 milioni. E aggirandosi per l’isola del Lazzaretto Vecchio, luogo in cui la mostra è situata, non è effettivamente difficile imbattersi in produttori d’ogni dove, accomunati dall’interesse per un’arte che si prepara a stravolgere il futuro.
Mancano forse i giornalisti, i quali, soprattutto in Italia, osservano con diffidenza le potenzialità ancora grezze di una nuova forma espressiva in crescita. Il rischio a cui si incorre è inevitabilmente quello di ritrovare però una categoria di intellettuali ed esperti che, un po’ come per il tema Netflix, si arrocca su ideologie che non incrociano criticamente il presente, mentre invece il pubblico, e dunque i soldi, viaggiano altrove. Sarebbe dunque il caso di iniziare ad avvicinare questa forma artistica, anche in virtù della sua complessa categorizzazione e delle incognite che evoca.
Molte sono infatti le problematiche che la VR pone, e tante sono quelle di carattere critico e teorico.
Con quali categorie analizzarne le forme, se con competenze di carattere cinematografico o videoludico, non è ad esempio ancora stato compreso, e potrebbe essere proprio questo il momento di trovare un campo di riflessione che funga da sintesi critica ai quesiti dei nuovi media. Soprattutto dato un mondo in cui l’audiovisivo è un contenitore troppo ampio per tacciare come eretico tutto ciò che non è una proiezione in sala.
Un problema di natura ekphrastica
Un altro problema di natura critica è addirittura antecedente ai lavori di analisi. Ancora prima di decidere se competenze come quelle relative alla scala dei piani, nella realtà virtuale molto fluida, siano da scartare o perlomeno ridefinire, bisogna comprendere come descrivere queste opere. Il primo problema della realtà virtuale è infatti la comunicazione delle sue forme, ed è dunque un problema di natura ekphrastica. Chiunque non abbia mai provato la realtà virtuale non può davvero immaginare di cosa si stia parlando, e questo anche perché non è facile parlarne. L’effetto di profondità creato dall’immersione in questi mondi virtuali è una sensazione che richiede di farne diretta esperienza, e se ci si aggiunge l’incredibile varietà di immersione sperimentate dagli sviluppatori si scopre quanto complesso sia divulgarne le forme. Ecco perché progetti come la mostra interamente dedicata a questa nuova forma sono il miglior strumento divulgativo a disposizione dei suoi creatori. Questo è anche il problema della diffusione della realtà virtuale, poiché come sempre è difficile vendere qualcosa di cui si può capire la natura solo facendone esperienza.
Il Festival del Cinema di Venezia è in tal senso il miglior alleato nella risoluzione di tali problemi, in realtà molto comuni nelle forme di rivoluzione tecnologica. L’idea di creare una competizione tra opere VR è ad esempio un efficace escamotage per porre in una dimensione agonistica i suoi creatori, permettendo incontri ed evitando una progettazione ignara del contesto. Il premio è infatti identico a quello del concorso principale del Lido, ossia un Leone D’oro, ed è con questo che il Festival del Cinema di Venezia direziona l’attenzione dell’opinione pubblica comunicando senza tentennamenti il proprio sostegno alla realtà virtuale.
Venezia capofila della rivoluzione
Mentre Cannes inizia la propria prima sperimentazione di una competizione parallela e dedicata alla Realtà Virtuale, la Biennale del Cinema di Venezia torna ad essere lido privilegiato per la ricerca e i sani scontri ideologici. Ha infatti raggiunto il quarto anno di vita la mostra VR che fu la prima mai ospitata da un grande Festival, e non c’è dubbio che ancora una volta trovino spazio istanze artistiche, riflessioni teoriche e divulgazione al pubblico. Un interessante workshop tenutosi domenica primo Settembre ha ad esempio dato inizio ad un serio lavoro di laboratorio teorico sulle forme critiche possibili per la realtà virtuale, «un simposio per il futuro», l’ha definito Michel Reilhac durante la conferenza d’annuncio.
Ovviamente la riflessione si accompagna all’esperienza, e in questo l’isola del Lazzaretto Vecchio, location inizialmente considerata metafora dell’estraneità con il cinema in concorso al Lido, si rivela a giornalisti e curiosi come paradiso della sperimentazione. Un mondo differente da quello proposto dal Lido, certo, ma forse per questo ancor più abile nel raccogliere l’eredità di narrazioni già codificare per condurre l’arte lì dove tecnologia e inventiva danzano assieme.
Alcune opere più interessanti
La mostra è divisa in due filoni, uno dedicato alle forme di immersione lineare, ossia quelle in cui l’esperienza a tutto tondo non è interattiva o alterabile, e una invece sui lavori interattivi, posizionati tra il confine molto sottile tra opera visuale e videogioco. Tra le due competizioni spicca però l’inaspettata Best of, raccoglitore dei progetti più premiati e applauditi degli ultimi anni. Anche questo segnale ben preciso da parte dell’organizzazione riguardo il futuro di una forma che, nonostante la poca attenzione giornalistica, ha già un passato ed i suoi cult.
Sorprende inoltre che gli spazi allestiti per l’esposizione sia anch’essi manifestazione di una precisa volontà artistica, con complesse installazioni e sofisticati impianti. L’arte più efficace nell’eliminare lo spazio circostante è dunque anche quella attorno cui si si sta manifestando più interesse per la costruzione di precisi ambienti fisici, pensati affinché l’istante prima che si indossi il visore lo sguardo si senta già immerso in una realtà di mezzo. Né quella di una stanza qualunque, né quella in cui il vr sta per condurti. Questi speciali spazi sono dunque una sorta di spettacolarizzazione dell’attesa, in cui l’ambiente viene ritoccato per prefigurare atmosfere di ciò che verrà mostrato. Anche successivamente all’avvio della visione, con casco e cuffie indossate, l’elemento di realtà sembra però continuare a permanere, se non addirittura aumentare la propria presenza.
Cosmos Within Us è forse l’esempio più efficace per comprendere la profondità di questi livelli di realtà. La mostra ne presenta infatti due versioni: una col visore, in cui si segue una storia emozionante e si interagisce con lo spazio virtuale in cui si è immersi, e una definita Making Of, grazie a cui è invece possibile osservare cosa accade a quella persona durante l’esperienza. Ciò che si scopre ha dello straordinario. Quello che allo spettatore con il visore appaiono come musiche e voci registrate sono in verità risultato di un gruppo live e delle letture di un attore in sala. Mentre quelle impressioni olfattive o tattili, come il profumo del legno o il movimento del vento, sono permesse da due esperti che girano attorno all’ignaro spettatore ponendogli vicino al naso bastoncini profumati o scuotendo ventagli. Nonostante sia possibile osservare da uno schermo ciò che lo spettatore sta vivendo è lo spettacolo che lo circonda ad essere davvero fenomenale, vero come la più sentita delle performance teatrali, eppure parte di un progetto con finalità virtuali.
Il limite tra reale e realtà virtuale
Sul limite tra reale e virtuale poggia però anche il lavoro di Celine Tricart, The Key. Una riflessione sulla condizione dei rifugiati narrata prima da un’attrice, che ospita lo spettatore in un’installazione grigia e spettrale, poi dal visore di realtà virtuale, che colora lo spazio conducendo la ricerca del passato della protagonista ad una soluzione che invita a levarsi il visore e a rivelare i segreti della stanza. Il grigiore scompare, alcune foto si mostrano: rifugiati abbandonati a loro stessi. Per riscoprire una dolorosissima realtà contemporanea si passa dunque per la virtualità, che come ogni finzione è allegoria solidamente connessa al mondo reale.
Immergersi in opere lineari
Non ci sono ovviamente solo esperienze così teatralizzate, ma anche opere lineari in cui perdere se stessi per il coinvolgimento proposto da mondi minuziosamente progettati. Grazie alla tecnologia HTC, ed al suo HTC Vive, prende forma Gloomy Eyes, opera ispirata all’immaginario di Tim Burton presentata al festival nei suoi primi due episodi. Le forme più lineari permettono forse di comprendere meglio gli studi di messa in scena elaborati dai team creativi al lavoro con queste sfide espressive.
La possibilità di ruotare per esplorare l’ambiente crea ad esempio un rapporto con la scenografia che è elemento quasi a sé stante dalla storia narrata. Se infatti si sta assistendo ad un dialogo proprio davanti a sé è possibile voltarsi e ignorare la vicenda, ponendo magari attenzione a dei dettagli dello spazio, o guardando fuori da una finestra posta proprio dietro il vero centro dell’azione. È un potere che cambia l’esperienza del racconto perché è come se durante la scena della doccia di Psycho avessimo potuto voltare il campo visivo, osservando ad esempio il noto urlo dal basso, o guardando il coltello affondare nel corpo da più vicino. O addirittura ignorando tutto ciò, e perdendosi nel contare le mattonelle del bagno. Certo, guardare Psycho così significa perdere lo sguardo del suo regista, ma se Alfred Hitchcock avesse pensato il film per una fruizione del genere non ci sono dubbi che anche la più nascosta delle mattonelle avrebbe avuto un qualcosa da scoprire. Ed è così che lavorano i nuovi artisti della VR, rendendo ogni movimento, ogni possibile esplorazione, ugualmente straordinaria e sorprendente. L’autorialità non viene piegata alla libertà dello spettatore, è lo spettatore ad essere piegato, mai come con quest’arte, ad una libertà progettata affinché non esistano limiti.
Il mistero dei dettagli
L’effetto più sorprendente dell’esperienza si manifesta dunque in quelli che in una normale analisi di un testo filmico chiameremmo “dettagli”, ossia l’osservazione ravvicinata di particolari. Qui l’immersione confonde nella maniera più efficace, attivando quelle zone del cervello adibite ai muscoli con cui si afferrano gli oggetti. Recenti studi, legati alle neuro immagini ed ai neuroni a specchio, hanno già dimostrato come lo spettatore cinematografico attivi alcune prefigurazioni cerebrali legate al movimento durante la visione. Assistere alla scena di una corsa, o anche solo al dettaglio di un oggetto, attiva i muscoli legati alla corsa o all’afferrare, ma poterne fare esperienza in un ambiente immersivo tridimensionale dà la sensazione di un potenziamento di questa risposta fisica. È impossibile non tentate di allungare la mano per afferrare libri, penne, oggetti che appaiono in un mondo che indipendentemente dalla qualità dell’animazione o della grafica appare vero poiché forte di una profondità paragonabile solo alla realtà.
Il concetto di voyeur risulta portato inevitabilmente all’eccesso quando ci si ritrova al centro di ambienti coinvolgenti non solo poiché profondi, ma anche ripresi dal vivo. È una delle tecniche di realtà virtuale più sperimentate del momento, sopratutto da quei registi che, provenendo dal cinema, non vogliono abbandonare la cinepresa. Riprendono dunque la realtà, raccontando storie i cui spazi sono però esplorabili a 360°. Ci si ritrova immersi in una realtà la cui virtualità passa velocemente in secondo piano, soprattutto quando ci si trova adiacenti ad attori in scena. Perché non si osserva più senza essere scoperti, come nel classico voyeurismo del cinema, ma si è immersi in un mondo come fantasmi invisibili, causando quasi il terrore di essere scoperti. Traveling While Black di Roger Ross Williams indaga proprio questo, narrando le sfide della comunità nera nelle grandi metropoli americane e ponendo lo spettatore in un mondo svelato da una esplorazione attraverso cui ci si sente intrusi senza permesso.
Un futuro virtuale, un futuro reale
La quarta edizione della Mostra dedicata alla realtà virtuale consegna dunque un’arte in itinere, caratterizzata dall’intreccio di forme espressive e inaspettatamente interessata all’elemento umano, e reale, nel risultato virtuale.
Le polemiche ovviamente non mancano, causate anche da problemi indubitabili, seppur normali in una tecnologia in sviluppo. Quest’arte però sembra richiedere un cambio d’approccio, da inaugurare con un coraggioso arresto di un metodo di giudizio che osserva la VR solo per provare a vedere se avrà o meno un futuro. Perché mentre si è immersi in questi mondi imperfetti si capisce che non importa dove andrà, ma che è già uno splendido presente.
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