Alla 76^ edizione del festival del cinema di Venezia è giunto il momento dei grandi maestri, ma anche delle annose polemiche. Polanski in concorso fa già discutere, ma mentre il regista non si presenta al Lido per ragioni note, la presidente di giuria, Lucretia Martel, sceglie di non applaudirne il film, J’accuse.
Ma è davvero bastato questo a dirottare l’attenzione degli ospiti della kermesse? Forse no, forse il film è riuscito nell’ardua missione di riportare l’occhio di bue sull’arte, silenziando ciò che oltre ad essa si fa inutile brusio.
La proiezione in anteprima del film è infatti al centro della terza giornata di Festival, e il risultato è un sospiro di sollievo per un concorso altrimenti non ancora capace di sorprendere.
L’affare Dreyfus, l’ingiustizia che chiuse l’ottocento
Una spada rotta ed una divisa strappata. L’immagine più nota dell’affare Dreyfus è quella in cui Polanski chiude ermeticamente il senso d’ingiustizia narrato dal film.
È il 1895 e il capitano Alfred Dreyfus (Louis Garrel) viene accusato di altro tradimento. L’isola su cui viene esiliato abbandona però velocemente la scena, occupata invece da quello che in un primo momento ci era apparso esecutore di questo dramma. Georges Picquart (Jean Dujardin), promosso a capo dell’unità di controspionaggio, è infatti il vero protagonista della vicenda; cigno nero in un sistema che rifiuterà di credergli quando metterà in dubbio il tradimento di Dreyfus. La prospettiva è così quella di un uomo le cui indagini distruggono la rispettabilità del sistema militare, giudiziario e politico della Francia di fine ‘800, scoprendo una serie di falsificazioni e manomissioni che ribalteranno il processo.
Proprio la scelta di porre Picquart come punto di vista principale sistematizza il film in un inizialmente lento evolversi. La prima parte, esplorativa tanto per Picquart quanto per lo spettatore, è uno sguardo torpido nell’aristocrazia di fine ottocento. Fasi di esposizione degli strumenti investigativi utilizzati dall’unità di cui Picquart è a capo si alternano ai primi dubbi riguardo la colpevolezza di Dreyfus, mentre i sorrisi ordinati di militari in divisa tramutano dal confortevole all’inquietante. Segue poi il vero sviluppo, orchestrato per sorprendere lo spettatore in un’accelerazione che migra il film nei lidi di un thriller ritmato, perfetto nei momenti di processo ed emozionante nell’apparizione di un partigiano Emile Zolà.
Polanski presente
Polanski c’è, anche se assente. Il suo «J’accuse» è un percorso in crescendo che rende giustizia ad uno splendido cinema classico. Solida ed efficace, la riproposizione dell’affare Dreyfus viene posta allo spettatore in maniera assolutamente lineare, ma non per questo meno interessante.
Si inizia dall’esilio di Dreyfus, si passa per l’articolo di Zolà (che dà il titolo alla pellicola) e si arriva allo scioglimento della vicenda. Questo è, e questo funziona. Nel frattempo però Polanski dà prova della differenza che intercorre tra un cinema di costume privo di carattere e un’opera autoriale pronta a sorprendere lo spettatore. L’utilizzo dei macro, l’alternanza di panoramiche e l’incastro tra campi lunghissimi e primi piani sono parte della formula con cui Polanski non ha mai smesso di lavorare, e nemmeno qui abbandona il metodo, trovandone un’esposizione utile a narrare l’affare Dreyfus come un fatto personale.
Inevitabile è infatti il gioco di accostamento tra l’ingiusta persecuzione giudiziaria al centro della pellicola e le vicende giuridiche del suo regista, ma non si riduce a ciò la commistione tra vicenda e narratore. Le anguste vie della personalizzazione si muovono infatti anche nella ferita sempre aperta dell’antisemitismo, mostrato nei paradossi creati da chi non vede un colpevole migliore di un ebreo. È pero anche grazie all’intreccio tra il tempo del racconto e il nostro presente che J’accuse afferra lo spettatore, ed è qui che la sceneggiatura si conquista attenzione e plausi. Frasi la cui contestualizzazione è possibile solo grazie alla messa in scena che ne caratterizza l’anno sono frequenti e mai retoriche, proposte spesso con ironia e parte di un elemento che risulta amaro anche nella prospettiva temporale della vicenda. Introdotto nel 1895 e concluso poco dopo il ‘900, J’accuse non è solo la testimonianza di ingiustizie ancora vive nella nostra società, ma anche prefigurazione delle tragiche guerre mondiali di cui anticipa ideologie e modelli.
Obbedire a un ordine per sentirsi parte di qualcosa, perpetrare ovvie ingiustizie per mantenere fede alle proprie idee. Il fondamento dell’affare Dreyfus sono radici che si sviluppano dai paradossi militari di cui ricava esempi nei nomi noti della vicenda. Polanski seleziona bene un cast dai volti grotteschi, utili a delineare le basi di un’etica spregevole che marcisce negli scantinati di sistemi marziali a cui il ‘900 ha dato spazio, e di cui solo l’affare Dreyfus aveva denunciato l’esistenza.
Se c’è un futuro per narrazioni lineari in questo mare discontinuo e frammentato, quel futuro si manifesta anche qui, nell’ultimo classico, granitico e forbito lavoro di Roman Polanski. Abilissimo nel trasportare lo spettatore dove passato e presente entrano in contatto, riportando a galla ferite, ma anche intrattenendo con una storia vera che trova ora casa anche su schermo.
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