Dal regista de Il giovane Karl Marx, Robert Guédiguian, un’opera sulla condizione solitaria di individui sfortunati o meschini. Una semplificazione della contemporaneità in figure manicheiste, ma reali, manifestazione secondo il loro regista «di un neocapitalismo che ha schiacciato relazioni fraterne».
Gloria Mundi, il tratto esplicitamente sociale, e semplificatorio, della 76^ edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Gloria Mundi: Marionette di un triste teatro
Robert Guédiguan inizia la propria dissertazione sociale dissolvendo un’illusione, forse la più retorica a cui l’uomo creda: il futuro è nei bambini, e brilla di speranza. Osserviamo dunque la piccola Gloria venire al mondo, mentre attorno a lei una famiglia di Marsiglia sembra credere al miraggio del nascituro salvatore. Eppure la vita non è questa e il mondo in cui Gloria è appena stata gettata continua imperterrito per le proprie tortuose vie, ripresentando alla famiglia gli stessi, soliti, irrisolvibili, problemi. Seguiamo dunque la coppia di genitori, ma anche i nonni e gli zii, in una vita che non lascia tregua, e le cui brutali fattezze cambiano le relazioni e i modi di essere umani.
L’attuale sistema sociale ed economico ci rende tutti più soli, sembra dirci Guédiguian, e nonostante nessuna generazione si salvi, quelle dopo saranno sempre peggio. Ne esce dunque una riformulazione della speranza creduta nell’essersi persi negli occhi di Gloria, poiché secondo tale cinica visione essa non giunge per salvare, redimere, bensì per subire e continuare ciò che prima di lei aveva già iniziato a marcire. La sorella della madre di Gloria è dunque l’essere spregevole che pensa solo ai soldi, sfruttandoli come mezzo per punire la sorella per presunte colpe d’infanzia, mentre il marito di questa è l’opportunista al soldo di una capitale agognato che cambia i rapporti e li scioglie in quella liquidità tanto cara a Bauman. Ci sono però anche i genitori, i quali sono più buoni dei figli, ma comunque piegati dai tempi. E dunque la madre è un’impiegata che lavora giorno e notte per le figlie e l’appena giunta nipotina, ma che abbandona a loro stessi i colleghi in sciopero.
L’inetto, il padre di Gloria picchiato per le strade di Marsiglia come il Joker di Joaquin Phoenix. Lo sfortunato, il nonno fermato dalla polizia mentre guidava il Bus. L’esterno, il vero nonno di Gloria appena uscito da vent’anni di galera con rinnovata coscienza ed una più chiara visione del mondo. Sono queste le marionette di carta di una storia che si sofferma senza profondità sui problemi della società contemporanea, proponendo una visione bidimensionale della guerra tra poveri e del disfacimento dell’empatia.
Un modo della narrazione che funziona come locandina per l’esposizione di prodotti, ma che vorrebbe, e d’altronde dovrebbe, essere un più approfondito e funzionale saggio sulla società neocapitalista. La scelta della singola famiglia per universalizzare il discorso è certamente un sintagma già esplorato dal cinema, soprattutto dal cinema francese, ma non trova qui occasione per liberarsi dal peso del particolare, dalla gabbia di personaggi che sono privati di una profondità utile a specchiarcisi.
Osservare dall’esterno
Il tema è così presto svelato e il suo sviluppo corre lì dove lo spettatore sa che andrà a finire. L’esterno, il nonno biologico, funge in quest’enunciazione da Deus Ex Machina, dimostrando come un uomo giunto alla società contemporanea dalla prigione sia l’hapax legomenon di una comunità cannibale. In tal senso è chiarificatore il fatto che questa figura esterna esca dalla prigionia e subito si rinchiuda nelle quattro tristi pareti di un ostello di periferia, ossia in un luogo che somigliando così tanto a una cella tiene lontano tutto ciò che ha scoperto essere divenuta la società.
Scrive inoltre poesie, haiku. «A cosa servono?», gli chiede l’ex moglie, «a cercare bei momenti e fermarli nell’eternità» . Ciò che lui possiede, e che tutti sembrano aver perso, o nascosto, è infatti il tempo. «Puoi essere gentile?», chiede un collega alla zia di Gloria, «Non ho tempo» risponde masticando un’arroganza ascesa a norma.
(Sic Transit) Gloria Mundi, è questo il titolo completo dell’ultima opera di Robert Guédiguian. Cita dunque il detto latino che ricorda quanto rapidamente passa la gloria di questo mondo. Non c’è però traccia nella sua messa in scena della possibilità di riscontrare davvero il risultato filmico di tale tesi, la quale rimane appesa al titolo come un proposito schiacciato nella bidimensiolità di una famiglia come tante altre del cinema della realtà.
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