È nei grandi eventi che si scoprono piccoli segreti. È così che a pochi minuti dall’inizio, il Lido di Venezia, con i giornalisti trepidanti e le masse in agitazione, si rivela il luogo più silenzioso della terra. Sono tutti chini a guardare ciò che sarà, scrivendo ai followers che qualcosa accadrà e che, assicurano, la magia sta per arrivare. E in parte è vero, ma nessuno lo sa per davvero. Per quello sono tutti in silenzio, è paura.
«Cosa si vedrà? Cosa varrà parole gloriose e cosa invece castighi!», si interrogano sul battello schiere di giornalisti ed esercenti, borbottando prima le basse aspettative nei confronti del Neil Armstrong di Ryan Gosling e poi scambiandosi rumors sull’arrivo o meno nelle sale dei film di Netflix. «Hai sentito? La Lucky Red non sembra interessata a distribuirlo nelle grandi sale, possiamo approfittarne noi piccoli». Parlano di Sulla mia pelle, anche se nessuno l’ha ancora visto sono già tutti innamorati. C’è Borghi, c’è la Trinca e c’è un dramma italiano, «se me sbagliano qualcosa li meno io!», commenta uno agitando il programma della mostra.
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Sussurrano tutti ancora per poco, ormai il momento è giunto e nemmeno il tempo di qualche selfie che scattano le 8.30; la prima proiezione ha inizio e dal silenzio del Lido si scatena il rumore assordante del Primo uomo pronto ad atterrare sulla Luna.
La sala torna a tacere, si tengono tutti alla poltrona e seguono stupefatti il viaggio stonato e perfetto di un Damien Chazelle qui regista dello spazio e dell’incubo. Due ore e venti, alcuni escono prima, alcuni parlottano, ma il film finisce e nonostante i lievi applausi nessuno sembra voler ammettere che non è piaciuto granché. Si prendono tutti una pausa, e fanno bene. Perché il buio profondo di un Neil Armstrong quanto mai doloroso aumenta nella mente che ci si sofferma sopra, sino a soffocare colui che ci si abbandona. E proprio quando ogni cosa sta per essere messa in dubbio compare il cast e il fascino di Gosling si mangia la conferenza stampa in un perfetto assist al regista. Qualcuno chiede a Ryan come sia interpretare un eroe americano e lui si ferma a fissare il vuoto prima di ricorda che «I am Canadian, please». Silenzio, poi risate. Tutto torna a posto e in men che non si dica Chazelle e il suo Primo Uomo, il film quanto il fidato attore, viene promosso, anche se con un tacito, ma comune, debito di riparazione a settembre. Continuano le interviste e Guillermo del Toro, tra un sorriso rasserenante e qualche pacca sulla spalla data a ignari passanti, introduce una vera e propria agenda politica per il futuro (e la saluta) del cinema. «L’obiettivo deve essere chiaro, ovvero la completa parità (di genere) entro il 2020. Se fosse 50/50 già dal 2019, ancora meglio. È un vero problema presente in tutta la cultura in generale. Non è un gesto: è una necessità».
Parte l’applauso, il primo vero della giornata, eccettuando i suoni striduli donati a Gosling, e come in un raccordo ben montato siamo tutti ancora in sala Darsena, per un altro applauso, uno più lungo, più sentito, forse quasi più vero. Nessun capisce veramente a cosa si stia dedicando l’applauso, se all’incredibile amara bellezza di Sulla mia pelle, racconto struggente sui giorni di detenzione che porteranno alla morte del trentenne Stefano Cucchi, o al cast presente in sala o, ancor più probabile, all’immenso abbraccio che Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, dedica ad ognuno dei membri del cast presente in sala. É un momento di strabiliante profondità, in cui un’intera sala si ritrova sintonizzata su una stessa frequenza emotiva, prima per il film, poi per la sua verità. Tutto scatenato dall’empatia intelligente e mai suggerita di una grande pellicola italiana. Se il mondo dello spettacolo è solo apparenza, qui appare una profonda sincerità, ed è bello e necessario.
Ovviamente non è tutto baci, abbracci e lacrime, e appena Sala Darsena viene svuotata ci si trova lanciati ad osservare un redcarpet pieno di spacchi vertiginosi e una Daniela Santanché straordinariamente pronta a far le scarpe a Lady Gaga con un giorno di anticipo. Momenti di divismo che sembrano allontanare la seria autorialità ospitate nelle sale circostanti ma che, come degli Indiana Jones del cinema perduto, si è andati a ripescare in sala Casinò con The Mountain, di Rick Alverson.
Il cinema d’autore che piace per la sua imperscrutabile asetticità è tutto racchiuso nell’opaca montagna di Alverson. Un film, con protagonista Jeff Goldblum, sulla strana terapia di lobotomia ideata negli anni ’50 e portata avanti da un medico solo recentemente smentito. Freddo e duro, The mountain ha distratto per un po’ i cinefili più puri, seppur confondendoli a sufficienza da riportarli dritti dritti verso il tappetto rosso di quella mondanità che, come da tradizione, domina la serata di questo cinema-passerella.
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