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Veloce come il vento

«Veloce come il vento»: ma quant’è bello questo nuovo cinema italiano

Non si tratta di macchine da corsa e belli e vincenti al volante ma di un «underdog movie». Come impatto emotivo che scorre su due ruote è poco «Fast» e molto «Furious». Di che cosa parla il nuovo prodotto vincente del regista italiano?

3 minuti di lettura

veloce come il vento

Finalmente l’Italia ha rialzato la testa e non accenna ad abbassarla. Lasciate stare i Fausto Brizzi di turno, con le loro idee interessanti e le occasioni mancate, con la genialità di uno spunto che si perde sbadatamente in cliché da cinepanettone. In ogni cambio di rotta c’è sempre il bivio ingannatore, l’importante è riuscire a non soccombere al miraggio e proseguire sulla strada giusta. Oggi ci si sta riuscendo, il cinema italiano è più vivo che mai e, forse per la prima volta, sa osare.

Già con Lo chiamavano Jeeg Robot abbiamo assistito, grazie all’indiscutibile abilità di Gabriele Mainetti, a una piccola rivoluzione nostrana; un supereroe sì romanesco, appesantito e borgataro, ma senza nulla da invidiare ai colleghi americani. E loro sono anni che sono in azione, mica cadono nel Tevere dall’oggi al domani per risvegliarsi con la forza sovrumana in corpo.

Ora abbiamo anche un Rush decisamente poco «Rush» perché, Ron Howard ci perdoni, ma di paragoni col suo (bel) film non ne possiamo più. Veloce come il vento non è macchine da corsa e belli e vincenti al volante ma è un «underdog movie», è poco «Fast» e molto «Furious» – inteso come impatto emotivo che scorre su due ruote. Matteo Rovere sa che per centrare l’obiettivo si deve guardare al mondo con un occhio in casa propria ed ecco che allora, senza il minimo accenno di piede in fallo, confeziona un prodotto nuovo, vincente, poco «made in Italy» ma al contempo assolutamente – e nuovamente – italiano.

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Già, perché alla ventata USA dei motori caldi si sovrappone uno schema tutto nostrano, dando ancora una volta ragione a Paul Ginsborg quando afferma che «colpisce osservare quanto spesso la famiglia venga assunta come metafora per altre aggregazioni politiche e sociali, e non viceversa». Siamo la patria del «familismo amorale» di banfieldiana memoria e non stupisce dunque notare il miscuglio di quattro ruote e fratellanza, con i segreti del mestiere tramandati di padre in figlio (e figlia) e la scomparsa del capofamiglia a riportare in pista le ruote e i sentimenti.

Loris (Stefano Accorsi) e Giulia (Matilda De Angelis) si ritrovano «carne a carne» solo dopo la morte del genitore, con il ritorno di un figliol prodigo «tossico di merda», Ballerino che non balla più, fucina di «vacca boia» e roulotte parcheggiata nel nulla dell’Emilia. È stato gloria e ora è meteora schiantata, trovatasi a fare i conti con una sorella diciassettenne che corre in GT e rappresenta il punto fermo di un sistema altrimenti precario. Perché nelle famiglie è così, c’è chi punta i piedi a terra per non schiantarsi e chi è movimento centrifugo e molecola impazzita. Ma è nello schianto, a volte, che si trova l’equilibro, ci si lascia andare per non sopravvivere e si torna a vivere per non morire.

Il sangue dei fratelli De Martino è benzina che scorre nelle vene e, nonostante le forze d’opposizione, all’odore del sangue non si può resistere. Si corre, gli pneumatici si consumano a contatto con l’asfalto e il rombo dei motori si fa precursore di crescita e amore reciproci.

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Veloce come il vento è il «race movie» che non ti aspetti, odora di famiglia e freni bruciati nel Paese dei circuiti di Monza e Imola che non erano stati ancora «sfruttati» dal grande cinema. Rovere va forte, dimostra un’assoluta padronanza del mezzo e propone inquadrature e sequenze che sembrano estrapolate dalla realtà, quando seguiamo la Formula 1 in tv e abbiamo l’impressione di essere dietro il volante del pilota. Il tutto senza mai rallentare la narrazione, che anzi procede a ritmi serrati, è drammatica nei punti giusti, non eccede in retorica e passaggi evitabili.

Ottimo Stefano Accorsi, scelto per interpretare un personaggio ispirato a quel Carlo Capone prima campione di rally poi stella caduta nella tossicodipendenza. Libero dai panni del sex symbol nato dalla pubblicità del Maxibon, lontano dal bravo marito traditore immaturo de L’ultimo bacio, veste egregiamente i panni (sporchi) del degenerato in bilico sul crinale tra la risalita e il buco nero. Matilda De Angelis poi è una rivelazione, un talento naturale di ventuno anni dalla faccia genuina e la grinta di chi è giovane anche se cresciuto troppo in fretta. Nel mezzo c’è la strada, quella che restituisce ai due un rapporto nuovo. Ma anche quella che conduce il cinema italiano verso l’alto, verso l’ambizione, con alla guida un regista da tenere sott’occhio e nelle ruote tanta speranza per il futuro.

www.cameralook.it
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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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