Iconico, celebratissimo, quasi brandizzato, Vincent Van Gogh (Zundert, 1853 ‒ Auvers-sur-Oise, 1890) è forse l’artista moderno più conosciuto al mondo. La sua vicenda biografica, costellata da amori scandalosi, frequenti ricoveri psichiatrici e un clamoroso insuccesso commerciale, è stata più volte trasposta al cinema, oltre ad aver ispirato canzoni e un fiorente merchandising che va dai capi di abbigliamento alle cover del cellulare, fino ai mitici mattoncini della Lego. Viene dunque da chiedersi se una mostra possa aggiungere un ulteriore tassello a una figura divenuta icona, su cui sembra essere stato detto già tutto. La risposta è ovviamente sì, soprattutto se il curatore sceglie di raccontare l’artista attraverso un tema. Nel caso della mostra Van Gogh ospitata da Palazzo Bonaparte a Roma il filo conduttore sono i luoghi a cui l’artista era legato e che hanno avuto una parte fondamentale nella sua formazione, dall’Olanda alla parentesi parigina, fino alla «casetta gialla» di Arles e al manicomio di Saint-Rémy, dove visse i momenti più oscuri della sua esistenza.
La mostra Van Gogh a Palazzo Bonaparte, curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti, realizzata in occasione dei 170 anni dalla sua nascita e visitabile fino al 26 marzo 2023, è stata prodotta da Arthemisia in collaborazione con il Kröller-Müller Museum di Otterlo che vanta la seconda più estesa collezione di opere dell’artista olandese, seconda solo al Van Gogh Museum di Amsterdam.
Il percorso espositivo, che si dipana attraverso due piani seguendo un ordine cronologico, dalle tele d’esordio meno note ai capolavori della maturità, presenta un corpus espositivo di 40 opere dell’artista tra disegni e dipinti, provenienti dalla collezione Kröller-Müller, affiancati ad altre opere di spicco della collezione stessa.
Come sottolineato dal video esplicativo di inizio percorso, la mostra Van Gogh di Roma racconta due storie, quella dell’artista olandese e quella della sua collezionista più accanita, Hellen Kröller-Müller, che ha acquistato e raccolto insieme al marito Anton Müller più di 11.000 opere tra il 1917 e il 1939, poi convogliate nel Museo di Otterlo, una vera e propria Casa Museo, ampliata nel corso degli anni fino a diventare una delle più prestigiose raccolte di arte moderna. L’artista più rappresentato della collezione è indubbiamente Van Gogh, con 90 dipinti e oltre 150 disegni.
Il percorso espositivo si dipana attraverso tutta la parabola artistica di Van Gogh, circoscritta in poco meno di un decennio di attività, dal 1881 al 1890, periodo in cui produsse oltre 900 opere, arrivando anche a dipingere un quadro al giorno.
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Ampio spazio viene dedicato meritoriamente alle opere degli esordi, meno note al grande pubblico ma fondamentali per capire l’evoluzione del linguaggio artistico di Van Gogh. Le prime opere olandesi sono disegni realizzati con svariate tecniche – gessetti, matite, penne e acquerelli – che mostrano l’attitudine disegnativa di Van Gogh che mirava a diventare illustratore: «Il disegno è il fondamento di tutto».
I soggetti rappresentati sono spesso modesti lavoratori immersi nella quotidianità domestica, intrisa di forte religiosità, testimonianza della spiccata empatia di Van Gogh nei confronti dei poveri e degli ultimi della terra a cui si sente emotivamente vicino, come evidente nelle parole scritte all’amato fratello Theo: «Cosa sono io agli occhi della gente? Una nullità, un uomo eccentrico e sgradevole – qualcuno che non ha una posizione sociale né potrà mai averne una: in breve l’infimo degli infimi».
I colori impiegati sono terrosi e caldi, lontanissimi dai colori brillanti delle opere della maturità, a sottolineare il legame con la terra, fonte di nutrimento e di lavoro per la schiera di umili personaggi come contadini, tessitrici, raccoglitori di patate, protagonisti delle opere esposte tra cui spicca il disegno preparatorio della celeberrima tela I mangiatori di patate.
Una particolare attenzione è dedicata al soggiorno parigino del 1886, spartiacque nella breve carriera artistica di Vincent, dove il pittore convisse con il fratello Theo, rinomato mercante d’arte. La Parigi che accoglie Van Gogh è l’epicentro delle nuove tendenze artistiche, pienamente investita dalla rivoluzione impressionista nonché capitale bohème per antonomasia. Van Gogh studia i presupposti scientifici della pittura impressionista, sperimentando l’accostamento di colori puri che porta la sua tavolozza ad arricchirsi di colori brillanti, e si inserisce pienamente nell’incandescente clima culturale di Parigi, frequentando artisti come Henri de Toulouse-Lautrec e Émile Bernard, da lui chiamati «artisti del Petit Boulevard». In questo contesto conobbe anche Paul Gauguin di ritorno da Martinica, per Van Gogh personificazione dell’artista errabondo alla ricerca di mete esotiche e selvagge. Tra le opere esposte in questa sezione spicca il celebre Autoritratto del 1887, scelto come immagine promozionale dell’esposizione, che mostra la piena ricezione e rielaborazione del linguaggio impressionista.
Nella sezione finale della mostra di Roma, Van Gogh viene raccontato attraverso un breve documentario l’episodio dell’automutilazione dell’orecchio nel 1888, durante la difficile convivenza con Gauguin nella casetta gialla di Arles e il conseguente e repentino peggioramento della salute mentale dell’artista, che proprio negli ultimi anni ha creato i suoi capolavori, frutto del tormento ma anche della voglia di reagire alla malattia mentale in una sorta di arteterapia ante litteram.
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Le ultime fasi della vita di Van Gogh, segnate da numerosi ricoveri in istituti psichiatrici, sono caratterizzate da una produzione prolifica e quasi ossessiva intrisa di un cromatismo violento e antinaturalistico, che traspare in opere come Il giardino dell’ospedale di Saint-Remy e Il paesaggio con covoni di grano e luna crescente, entrambe del 1899.
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La parabola artistica e umana di Vincent Van Gogh termina nel 1890 quando il pittore si spara un colpo di pistola che lo porterà alla morte una settimana dopo, all’età di 37 anni. La mostra ripercorre le tappe di questo travagliato percorso attraverso stralci delle famose lettere a Theo che ci accompagnano durante tutta la visita alla scoperta di un uomo colto, complesso e tormentato ma animato da speranza e forza di volontà, nonostante le intemperie della vita.
Uscendo da Palazzo Bonaparte si è portati a interrogarsi sul concetto di «normalità» e su come la genialità artistica non debba essere giudicata secondo i parametri dell’uomo comune. Emblematica la riflessione del rapper Caparezza nel suo irriverente brano del 2014, Mica Van Gogh, in cui confronta la vita avventurosa dell’artista e la sua straordinaria ricchezza interiore con la monotonia e la vacuità dell’uomo medio contemporaneo, incline a bollare come «pura follia» l’anticonformismo e il pensiero fuori dagli schemi dell’artista.
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Buongiorno…. Sono una maestra di Napoli… I miei alunni sono innamorati di Van Gogh e vorrebbero tanto visitare la mostra è possibile?