Da giovane rivelazione in Storia d’amore a stella internazionale in Rain Man, da mancata Pretty Woman ad appassionata sostenitrice del cinema europeo d’autore, da produttrice a regista emergente: è così che Valeria Golino, donna dalle mille storie e sfumature, si presenta al pubblico del Teatro Filarmonico di Verona. Ospite dell’associazione culturale IDEM-percorsi di relazione (prossimo appuntamento della rassegna L’attimo fatale il 21 marzo con il giornalista Corrado Augias), l’attrice partenopea dialogando con lo scrittore ed autore teatrale Marco Ongaro ha raccontato se stessa e le complesse trame di una carriera che l’ha vista protagonista di numerose pellicole italiane di qualità (Puerto Escondido di Gabriele Salvatores, Caos Calmo di Antonello Grimaldi, Respiro di Emanuele Crialese, Il capitale umano di Paolo Virzì, Il nome del figlio di Francesca Archibugi solo per citarne alcune), ma anche una tra le poche attrici italiane apprezzate dallo star system d’oltreoceano, dove ha lavorato con registi del calibro di Sean Penn, Quentin Tarantino, Barry Levinson.
Attraverso un excursus dei film che hanno cambiato la sua vita, Valeria Golino ha rivissuto e condiviso con il pubblico emozioni, aneddoti e passioni, dal suo rapporto con Hollywood al suo recente approdo al ruolo di regista.
Vi riportiamo qui di seguito alcune sue riflessioni.
Gli esordi
I miei esordi sono stati facili, casuali, non ho dovuto fare la classica gavetta. Davo tutto per dovuto, tutto per scontato, forse perché il cinema non era il mio sogno. In realtà io avrei voluto iscrivermi alla facoltà di medicina, ma gli incontri, le circostanze mi hanno portato altrove. Trovarmi fin da giovanissima a recitare con star planetarie, come ad esempio in Gli occhiali d’oro di Giuliano Montaldo (con Philippe Noiret, Rupert Everett, Stefania Sandrelli, ndr.) mi sembrava giusto, pensavo di meritarmelo, quasi si trattasse di una sorta di compensazione per aver vissuto un’infanzia un po’ difficile. Vivevo queste esperienze con una sorta d’impertinenza che oggi non avrei. Con gli anni ho imparato l’arte dell’umiltà.
Andavo ancora a scuola quando ho fatto il primo film con Lina Wertmüller. In quegli anni mi ero trasferita da Napoli ad Atene (figlia di una pittrice greca e di un germanista italiano, ndr.) dove frequentavo il liceo scientifico. Durante le vacanze di Pasqua rientrai a Roma per trascorrere qualche giorno con mia zia, che era amica della grande regista. Ricordo che per telefono le raccontava del film che stava girando con Ugo Tognazzi, un feticcio per la mia famiglia di cinefili. Così mi ritrovai sul set di Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada alle prese con una Wertmüller durissima con gli attori, soprattutto con i giovani inesperti come me.
Poi ho avuto la fortuna di incrociare sulla mia strada Francesco Maselli, il migliore «direttore di attori»che abbia mai incontrato. Avevo 18 anni e girando con lui Storia d’amore ho capito cosa significasse veramente recitare. Riguardandolo penso di essere stata brava in quel film.
Rain man
Non sono stata altrettanto brava in Rain man (1988). Mi volli doppiare da sola in italiano, con un esito discutibile. Giuro che in inglese recitavo meglio. La mia voce risultava particolarmente metallica a causa dell’apparecchio che portavo all’interno della bocca per raddrizzare i denti canini. La dentatura imperfetta con la quale avevo sempre convissuto senza problemi era inaccettabile per lo star system americano, ed i miei manager mi obbligarono a sistemarla. Inizialmente per il ruolo di Susanna era candidata Meg Ryan, ma la produzione ritenne che una protagonista straniera avrebbe reso meglio il senso di incomunicabilità tra i protagonisti. Feci 11 provini per quel film, al penultimo si presentò Tom Cruise, all’ultimo arrivò anche Dustin Hoffman e li capii che la parte era mia.
Non mi è sempre andata così bene. L’anno successivo ad esempio per il film Pretty Woman arrivai seconda, mi preferirono Julia Roberts. Giustamente, perché lei era più adatta di me per quel ruolo. Una vera movie star.
Live in America
Sean Penn mi scelse per Lupo Solitario (1991), il suo film d’esordio come regista, con un cast veramente stellare.
Allora vivevo a Los Angeles, dove sono rimasta per quattro lunghi anni caratterizzati dalla dicotomia tra la vita americana e il mio legame con l’Italia. Stare negli USA mi inorgogliva, mi piaceva la vita che facevo, ma sentivo intimamente che si trattava solo di una parentesi, era troppo forte il legame con il mio Paese, il mio amore per il cinema d’autore europeo. Un’ambivalenza che è nella mia natura. Non mi consideravano comunque un’icona della bellezza italiana, che nell’immaginario collettivo americano è incarnata da Sophia Loren e Monica Bellucci, io per loro ero indefinibile, una straniera sì, ma non un’italiana.
Il Messico
Due film mi legano a quel Paese. Il primo è Puerto Escondido di Gabriele Salvatores (1992). Ero l’unica donna del cast, circondata da compagni di lavoro vulcanici quali Diego Abatantuono, Cluadio Bisio, Fabrizio Bentivoglio, un’esperienza molto divertente. Ricordo che durante le riprese Salvatores andò a Los Angeles per la cerimonia di consegna degli Oscar, tornando con la statuetta per Mediterraneo. Facemmo festa in mezzo al deserto messicano, in un’atmosfera psichedelica forse per colpa dei funghi allucinogeni che abbondavano nella zona. Gabriele è un regista fedele agli attori ma non alle attrici, sono l’unica ad aver girato due film con lui (il secondo è Il ragazzo invisibile, uscito nel 2014, ndr.)
Tutto al femminile era invece Frida (2002), donne erano la protagonista (Salma Hayek nei panni della pittrice Frida Kahlo), la regista, la produttrice. Con Salma avevo girato l’anno prima Hotel e tra noi si era instaurata una bella amicizia. Il mio ruolo lo voleva Madonna, ma Salma, che era coproduttrice, ha voluto me, una «messicana» con gli occhi azzurri. Io amo lavorare con le donne, anche se non mi piace fare discriminazioni di genere nell’arte. In fondo, come diceva Robert Mitchum alludendo alla spiccata componente femminile della personalità di un artista «non ci sono attori, solo attrici».
Texas
È il titolo del film di Fausto Paravidino nel quale nel 2005 ho conosciuto Riccardo (Scamarcio, ndr.), mio compagno di lavoro e di vita. Le esperienze che hai fatto quando riemergono dal passato ti ricordano ognuna un sentimento. Rivedere questa sera un frammento del film, dopo tanti anni, mi ha commosso intimamente.
La Coppa Volpi
La giuria della Mostra del Cinema di Venezia mi ha premiato due volte come miglior interprete femminile, a distanza di 29 anni l’una dall’altra. La prima Coppa Volpi è arrivata nel 1986 grazie al film Storia d’amore di Francesco Maselli, la seconda nel 2015 con Per amor vostro di Giuseppe Gaudino. C’è un ponte che unisce Storia d’amore, Respiro e Per amor vostro, è la ricerca di un personaggio che ho maturato negli anni, un personaggio che ha in sé qualcosa di arcano, di irreale, una sorta di trasfigurazione. Sono personaggi che hanno saputo toccare il cuore del pubblico così come hanno toccato il mio.
La bellezza
La bellezza per me è molto importante, ne sono ossessionata. Sono succube della bellezza degli altri. Io invece sono una vanitosa scontenta. Un tempo ero insoddisfatta della mia bellezza, avrei voluto esserlo di più, anche se rivedendomi ora devo dire che tutto sommato me la cavavo bene. Trovo invece problematico “fare la bella”: ritengo imbarazzante la bellezza costruita, mentre mi commuove quella spontanea, inconsapevole, che trovo poetica.
Dietro alla macchina da presa
La regia è un’esperienza complessa, a tratti gioiosa a tratti angosciante. Devi riuscire far amare il film agli altri, ed hai una grande responsabilità nel confronti del cast e di tutti coloro che lavorano nella produzione. L’aspetto più riposante è scegliere gli attori, per una volta guardare e non essere guardati. Nel mio film Miele mi sono letteralmente innamorata dei miei attori, della bellezza ostica di Carlo Cecchi, della bellezza assoluta di Jasmine Trinca. Il mio film è diverso dal romanzo di Mauro Covacich (che nel libro da cui è tratto il soggetto si firma con lo pseudonimo Angela del Fabbro, ndr.), i contenuti sono stati filtrati dalla mia sensibilità e da quella delle sceneggiatrici. Volevo nel copione conversazioni etiche, dove le parole avessero un peso.
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