Credere che Donald Trump, con le sue esternazioni al limite del folklore, il suo modo di irridere alleati (o presunti tali) e avversari, con i suoi cambi di rotta apparentemente senza logica, fosse la causa dell’aumentare delle tensioni a livello internazionale (soprattutto oggi all’interno dell’Unione europea), era uno sbaglio, e ora dovrebbe essere chiaro anche ai più convinti sostenitori di questa tesi. L’ex presidente era il sintomo, non la causa, di un malessere profondo, di tensioni che covavano sotto la sabbia esacerbate da una serie di fattori nazionali e internazionali che sono andati a sovrapporsi e a intrecciarsi, in modo talvolta troppo profondo per poter essere di nuovo divisi ed affrontati singolarmente.
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Il malessere americano e la polarizzazione ideologica di un Paese, dove quest’ultima era semi-sconosciuta, sono elementi importanti, come lo sono la crescita cinese, l’hybris statunitense a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, le guerre medio orientali, il ritorno sulla scena della Russia di Putin, la crisi economica del decennio scorso e quella legata all’emergenza sanitaria.
Unione europea oggi, dove sei?
In quest’elenco, brevissimo e concentrato sull’ultimo ventennio circa, manca però un attore: l’Unione Europea: circa 500 milioni di abitanti, ventisette Paesi che sommati costituiscono la seconda economia mondiale, la terza se consideriamo solo l’area euro. Eppure, se guardiamo ai principali sviluppi internazionali, è difficile attribuire all’UE come istituzione un peso anche lontanamente paragonabile ai freddi numeri che è in grado di mostrare. Anzi, sul piano internazionale, l’Unione Europea semplicemente non esiste, con buona pace dell’Alto rappresentante Josep Borrell, che purtroppo occupa un ruolo poco più che simbolico.
In un contesto sempre più polarizzato e nel quale sono richieste scelte di campo chiare e coraggiose, l’Europa sembra voler restare nel mezzo, con dichiarazioni concilianti verso tutte le parti. Alcuni sono convinti che si tratti di una strategia volta a buttare acqua sul fuoco e a porsi come paciere tra i contendenti. Altri sono convinti invece che, data la quantità di interessi e legami a cui devono far fronte i paesi europei, questa sia solo una posizione obbligata: il gas russo è vitale per le grandi economie del continente (e ora ce ne accorgiamo più che mai), i livelli di interdipendenza economica dalla Cina sono addirittura cresciuti durante la pandemia, soprattutto per chi conta davvero nelle sale dei bottoni, ovvero i tedeschi, e la dipendenza tecnologica e militare dagli USA è invece qualcosa di cui non si può fare a meno, se si vuole navigare con un minimo di tranquillità. Vi è poi una terza scuola di pensiero, che inizia ora a farsi largo, sebbene in ritardo, nei think tank europei, ovvero che se si resta fermi nel mezzo i danni saranno peggiori, e lo saranno in modo diffuso.
Il fronte pacifico
Il lancio dell’Aukus, un accordo militare tra USA, Australia e Gran Bretagna,- che fra le altre cose prevede un’importante commessa di sottomarini nucleari per la marina australiana, annullando così un precedente contratto che sempre gli australiani avevano anni prima sottoscritto con i francesi (con il benestare americano) – è arrivato a chiarire un altro aspetto fondamentale sullo scacchiere, ovvero che da tempo ormai i Paesi europei costituiscono solo un partner di serie B.
Il fatto che i francesi non siano stati nemmeno avvisati è una caduta di stile che non cambia le assunzioni di fondo. Il focus statunitense si è da tempo spostato nel Pacifico, con i soli britannici che provano, a causa della loro storia e di note congiunture odierne, ad agire a rimorchio americano. Lo dimostra anche il fatto che la HMS Queen Elizabeth, ammiraglia e fiore all’occhiello della Royal Navy, è l’unica spedizione europea che ha attraversato Suez per dirigersi a dar man forte agli americani nel Mar Cinese meridionale. Non che gli USA ne avessero bisogno, sembra questo anzi più un tentativo di alzare la mano e dire «Ci sono anche io», e di rinvigorire così quella sfiorita idea di Global Britain che sembra far presa sull’elettorato conservatore inglese.
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Le reazioni di solidarietà alla Francia al lancio di Aukus da parte dei Paesi europei in relazione ad un fatto di tale portata sono state del tutto trascurabili. Ancora una volta le principali nazioni continentali sembrano credere di essere nel bel mezzo di un conflitto che non li riguarda, come se appartenessero a un altro sistema solare, come se le scelte prese da altri non avessero precise conseguenze su un continente che presenta notevoli mancanze in aree chiave sulle quali si misurerà la competizione del futuro.
A partire dal caotico ritiro dall’Afghanistan si è ricominciato a parlare di “autonomia strategica” dell’UE, ma si tratta per lo più di discorsi fumosi ai quali mancano semplicemente le gambe per camminare: in primo luogo buona parte dei Paesi europei – tutti quelli che contano esclusa la Francia – spendono cifre ampiamente al di sotto dei competitors in difesa. Semplicemente abbiamo sempre sfruttato l’ombrello americano pensando ingenuamente fosse gratis. Ci sono poi dei gap che si riveleranno difficili, se non impossibili da colmare, per quanto riguarda AI e semiconduttori, due settori chiave per il futuro, e in terzo luogo, e ultimo ma cruciale, manca la volontà politica oltre i discorsi di facciata.
L’ipotesi della forza comune europea
Una forza comune dell’Unione europea oggi semplicemente è molto difficile da immaginare se pensiamo agli interessi divergenti che troppo spesso caratterizzano i Paesi europei.
In Libia, la cui stabilità sarebbe stata nell’interesse di tutti in ottica di sicurezza migratoria e dove sarebbe servita davvero una forza comune in grado di intervenire nel 2011, Francia e Italia difendevano interessi diametralmente opposti, in un contesto quasi da mors tua vita mea. La Russia potrebbe essere un partner importante per i tedeschi e anche per noi, ma spiegarlo ai Paesi baltici o alla Polonia pare essere un’impresa piuttosto ardua (e dargli torto verrebbe difficile). Il Libano è stato anch’esso oggetto di contese tra Francia ed Italia, la Turchia minaccia insistentemente le isole greche ed è divenuta una presenza costante in Libia, ma non sembra esserci una strategia comune per contenerla. E la lista potrebbe allungarsi ancora molto.
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Un ultimo tema, ma fondamentale quando si parla di difesa, è stato recentemente ripreso dalla redazione di Limes che ricorda a noi, conglomerato economico di stati post-storici, che difesa può voler dire guerra, e in guerra si muore. Semplicemente settant’anni di pace, ai quali l’UE ha ampiamente contribuito, hanno contribuito a una visione edulcorata delle cose che mal si confà all’idea stessa di difesa comune.
Chi stabilisce se un interesse è comune a tutti? Chi decide che gli interessi di X debbano prevalere su quelli di Y? E soprattutto, chi è disposto a vedere tornare i propri cari avvolti in una bandiera e giustificare un funerale di Stato davanti a un elettorato che potrebbe non capire?
L’Unione Europea oggi è fondamentale quindi nel calmierare le tensioni interne tra gli Stati che la compongono. L’idea di intrecciare le economie e le persone a un livello che avrebbe reso preferibile qualsiasi compromesso rispetto all’uso della forza ha funzionato, e attenzione, non si tratta di un traguardo secondario in un continente che vedeva una guerra scoppiare dopo l’altra. Ciò però non basta perché i singoli stati siano disposti a mettere da parte i propri interessi esteri ed a condividere l’uso della forza.
In sintesi, sul tema si stanno invertendo i paradigmi. Non è possibile parlare di difesa comune mentre l’Unione resta ancora un’organizzazione quasi solo di natura economica e scarsamente politica. Se si trattasse di uno stato davvero federale sarebbe possibile farlo, ma non è questo il caso e non lo sarà nemmeno nel futuro, o almeno non in un orizzonte temporale accettabile per far fronte alle sfide che ci riguardano.
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Sotto questo aspetto le elezioni tedesche sono state emblematiche: molti commentatori si sono dilungati nel sottolineare i tratti di continuità tra Merkel e Scholz, presentando il leader socialdemocratico quasi come l’erede naturale della cancelliera; e non si può certo dire che, tolti gli ultimi due anni e la situazione eccezionale a cui i governi si sono trovati a far fronte e da cui è nata NextGen EU, i cancellierati guidati dalla leader della CDU abbiano dato una particolare spinta in senso federale all’Unione, anzi. La Germania si è continuamente dimostrata un Paese fortemente economicista e poco interessato al lato politico del progetto europeo, e ora, con i liberali che faranno da ago della bilancia, potrebbe essere lecito aspettarsi addirittura una contrazione riguardo alle aperture recenti.
Restiamo a guardare le pedine che si muovono, preoccupandoci di capire quale sia il male minore, e nel frattempo fingiamo di dimenticare che spesso le contese finiscono con un perdente e che gli stati non allineati, durante la Guerra Fredda, erano semplicemente stati che non contavano abbastanza. Il tutto è reso ancora più grottesco dal fatto che non esiste una scelta di campo da fare, gli equilibri sono gli stessi del 1945, ma facciamo finta di dimenticarcene in un complesso schema di marginal gains che prima o poi si esauriranno.
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