Una seria e puntuale riflessione sul rapporto tra arti figurative e letteratura non può prescindere da una seppur succinta analisi iniziale del valore dell’immagine. L’immagine, infatti, è elemento centrale tanto della poesia quanto dell’arte figurativa. In letteratura l’immagine poetica, di tipo mediato, viene consegnata al fruitore al quale viene affidato il compito di configurarla nella propria mente. Nelle arti figurative l’immagine pittorica è invece immediata, in quanto restituita direttamente ai sensi dello spettatore, la vista in particolare.
Il confronto dialettico tra arti figurative e letteratura si snoda attraverso i secoli. Gli antichi Greci, pur esercitando le arti figurative a sommi livelli, le consideravano inferiori rispetto all’attività letteraria, poiché disprezzavano la componente manuale del lavoro artistico. Sempre in epoca classica, un primo connubio tra arti figurative e letteratura viene istituito da Orazio con il suo famoso “Ut pictura poesis“:un motto che, ben al di là delle reali intenzioni del poeta latino, è stato in seguito posto a fondamento dell’estetica barocca. Nel ‘600 molti intellettuali teorizzarono la necessità che i pittori operassero come i poeti e i poeti come i pittori. Massimo esempio di questo interscambio, forse un po’ forzato, sono gli affreschi della galleria di Palazzo Farnese a Roma, eseguiti da Annibale Carracci. L’artista dà vita a una superficie complessa e sfavillante, che costituisce l’equivalente pittorico dell’Adone di Marino, testo base della poesia barocca.
E’ pur vero che ciò che rese possibile un primo affrancamento delle arti figurative da quella condizione d’inferiorità rispetto alla letteratura alla quale era stata relegata da secoli fu l’incontro-scontro tra umanisti e artisti rinascimentali. In questo senso vanno letti gli scritti dell’Alberti e di Leonardo, ed è in questo contesto storico-culturale che può maturare, in seno al circolo neoplatonico-mediceo, il genio di Michelangelo.
Al “gigante” italiano guardano artisti successivi come William Blake, pittore e poeta, e Johann Heinrich Fussli, che consacrò gran parte della propria opera alla traduzione pittorica del teatro shakespeareiano.
Nella seconda metà del XIX secolo il dialogo tra arte e letteratura si fa più stringente, nell’ambito di movimenti quali il Simbolismo e la scuola pittorica dei Nabis. Quanto appena detto fu solo un preludio alle compatte alleanze tra artisti e scrittori che informarono le battaglie culturali delle Avanguardie storiche di primo ’900.
Interessanti appaiono gli sconfinamenti dei letterati nel campo della pittura. Dai casi più acclamati di Ruskin, Savinio, Fiume, a quelli meno noti di Dario Fo, Joppolo, Witckiewicz, Montale, Pasolini, Buzzati. Sin dalle più antiche manifestazioni la letteratura ha infatti voluto gareggiare con la pittura: basti pensare alla tecnica dell’Ekphrasis, inaugurata dal sommo poeta Omero nell’Iliade con la descrizione dello scudo di Achille. Ma non è stato solo l’ardire degli Antichi a spingere gli scrittori a usare la penna quasi fosse un pennello; a questa tecnica ricorrono tutti quegli autori desiderosi di far passeggiare il lettore nel dipinto. È il caso di Diderot che usa l’Ekphrasis come arma critica nel suo Salon del 1767 , o ancora di Balzac (Il capolavoro sconosciuto) e di Zola (L’opera) che inaugurarono la stagione del roman d’artiste.
Dalla descrizione di un quadro procedono altri capolavori della letteratura come Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe o il più recente Il cavaliere e la morte del nostro Leonardo Sciascia. Un uso sistematico dell’Ekphrasis si ravvisa poi in Tabucchi, si pensi a La Traduzione: qui tutta la narrazione si rivelerà essere la descrizione di un’opera di Van Gogh raccontata a un cieco. Jacqueline Spaccini nel suo Sotto la protezione di Artemide Diana (Rubbettino, 2009) scrive:
Spesso la letteratura ha l’ambizione di appropriarsi dell’arte pittorica e di riscriverla, citando e autocitandosi, affidandosi alla metafora, reinventando il quadro e il suo significato, organizzando semanticamente gli spazi della pagina come quelli della tela.
D’altro canto gli artisti hanno spesso sentito la necessità di consegnare ai posteri il ricordo del proprio itinerario esistenziale, non solo attraverso i quadri, ma anche con la redazione appassionata delle proprie memorie. E’ questo il caso di Friedrich, Kubin e Carrà. La riflessione sul “mestiere” informa la nobile tradizione dei trattati di pittura. A partire da Cennino Cennini con il suo Libro dell’Arte e dal Leonardo dei “codici”, passando per Sciltian e Piva, tanti sono stati coloro che hanno tramandato per iscritto, di generazione in generazione, i segreti del “fare” pittorico, per offrire ai nuovi artisti i risultati di una ricerca lunga una vita.
Definire le linee guida del proprio percorso artistico, intervenire nel dibattito culturale, precisare la propria poetica: ecco le motivazioni del proliferare di saggi e testi teorici firmati dagli artisti. A quest’ambito appartengono i vari manifesti delle Avanguardie storiche, gli scritti di Duchamp sul ready-made, il volume di Allan Kaprow Assemblage, Environments and Happenings (1966) che inaugura la fugace stagione di Fluxus, le Frasi sull’Arte Concettuale (1967) di Sol LeWitt, e ancora gli scritti teorici e critici di Magritte, Guttuso, Munari, Vasarely, Nitsch, eccetera.
Visionario e magniloquente, l’incedere letterario di Salvador Dalì rivela un’artista che, dedicatosi da giovane alla poesia su suggestione dell’amico García Lorca, ha continuato a scrivere lungo tutto l’arco della propria vita. Con un tono che oscilla tra l’ironico e il fanatico, il genio spagnolo affronta il genere autobiografico (La vita segreta), il trattato pittorico (50 segreti magici per dipingere), il saggio teorico (La conquista dell’irrazionale) e il pamphlet (I cornuti della vecchia arte moderna).
Non sono mancati pittori versati in una scrittura di tipo più creativo. Non possiamo non citare il petrarchismo di Michelangelo nelle sue Rime, lo struggente memoriale del Pontormo, gli scandalosi atti unici di Kokoschka, i lunghi diari di Andy Warhol o ancora le conturbanti visioni di De Chirico nel suo Ebdòmeros. In questo romanzo, il più grande artista del Novecento italiano, che si definiva pictor classicus e che amava l’enigma, invita i lettori a “diffidare dell’originalità” opponendo a essa “l’ispirazione originaria”. L’arte europea, che per sopravvivere si è rivolta alla pittura giapponese prima e alla cosiddetta “scultura negra” poi, per boccheggiare infine con le neoavanguardie, dove potrebbe ritrovare la propria forza originaria se non nel Mediterraneo e nella Grecia antica, sola e autentica culla dell’Occidente?
Di certo nessuno in questa sede vuole caldeggiare una pittura reazionaria e obsoleta, bensì un’arte che inauguri una nuova Età volta a metter fine alla vana ricerca del “nuovo” a ogni costo. Nel segno della pregnanza poetica e della consapevolezza teorica e tecnica, sarà necessario condannare all’oblìo lo shock gratuito, la banalità e il kitsch che hanno talvolta inquinato il mondo dell’arte contemporanea, sempre più dominato dalle leggi del mercato.
Ciò che va recuperato non sono le forme degli Antichi, ma il loro spirito; il senso dell’eccellenza che scaturisce dalla concordia oppositorum instaurantesi nietzscheanamente tra forma e contenuto. Ecco il senso profondo del Classicismo che, come scrive Savinio nel suo Hermaphrodito (1918):
Non è un ritorno a forme precedenti, prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa; bensì il raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica, che non esclude affatto le novità.
Per concludere, credo sia possibile superare il momento di impasse che l’arte contemporanea sta attraversando sia mediante una riflessione sulle radici culturali dell’Occidente, sia rinnovando un proficuo dialogo tra arte e letteratura.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!