Il popolo elevato a modello
Un concetto che nasce con la filosofia greca è quello della differenza tra il filosofo, una sorta di sapiente isolato e messianico, e il popolo, una sorta di volgo ricolmo delle peggiori menti, perverso, futile, attaccato ai beni materiali e all’edoné smoderato.
Questo concetto sarà ribadito prima dal reazionario romano Sallustio nell’incipit del De Catilinae Coniuratione, affermando che ogni uomo che vuole avere delle pretese di grandezza deve impegnarsi per non passare la vita nell’oblio, come la pecora che la Natura ha fatto prona e dedita agli istinti, poi da Friedrich Nietzsche, con la sua teoria dell’ Uebermensch, che guarda con sdegno il divenire impervio e vi imprime la sua volontà di potenza, infine dallo snob esistenzialista francese Jean Paul Sartre, nel suo La Nausea, il cui protagonista passa il tempo a disprezzare i “borghesotti” del paese e ad ascoltare Some of these days, facendo da modello per tutti quegli eroi nichilisti che verranno dopo.
Sembrano però non averlo capito gli elettori europei che hanno elevato quella massa tanto disprezzata a modello, dopo averlo fatto, in passato, con i magistrati e i tecnici. E così, nel panorama politico, sono comparsi come funghi movimenti e partiti pronti a combattere a spada tratta per il cittadino: sia a sinistra, i cui leader si vantano di timbrare ancora il cartellino per entrare in fabbrica, sia nei partiti più moderati, che hanno eletto la Panda a simbolo universale, sia a destra, tirando fuori il sempreverde Benito Mussolini, che «ha fatto le scuole, ha bonificato le paludi e ha dato alle donne il diritto di voto».
Non è esente da questo feticismo per il popolo neanche la cultura: gli scrittori si innalzano a paladini della classe medio bassa, per riportare la letteratura nelle strade, scrivendo «storie delle persone comuni», ovvero scopiazzando Raymond Carver. I musicisti si sono iscritti a Instagram e Facebook e ci deliziano con i particolari della loro vita privata e la loro frustrazione sentimentale, per non parlare del «teorico della gente» Diego Fusaro, ultimo difensore della lingua italiana contro lo strapotere dell’inglese, espressione del neoliberismo più selvaggio, che ha indossato Rolex e Lacoste per la rivoluzione.
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Gli anni ’80 e il «gentismo»
La sconfitta del comunismo e il benessere degli anni ’80 hanno portato a un fenomeno che potremmo definire desocializzazione dell’individuo. Grazie a una consolidata sicurezza economica e in nome di un pragmatismo anti-umanista, l’individuo ha cominciato a sentirsi sicuro di sé e ha fondato una nuova religione, basata sul successo, sul piacere e sul disinteresse verso la questione politica, se non in maniera deliziosamente pop. La vetta di questa nuova cultura alla base del gentismo che è andata diffondendosi viene raggiunta dagli yuppies, stile Gordon Gekko o Patrick Bateman, ficcati nei loro abiti firmati, di mattina nello studio e di sera in una discoteca, seguendo le note di True Faith dei New Order.
Così come il sogno americano di Gatsby si è infranto una volta entrato in rotta di collisione con la realtà, allo stesso modo l’indipendenza basata sulla sicurezza economica e sul guadagno è collassata con la crisi globale del 2008.
La gente, però, incapace di ammettere una parte di responsabilità, forte del proprio ego, si è eretta a Messia, contro lo strapotere politico, subordinato all’alta finanza e ai militari. Le milizie armate del gentismo vagano per social network, manifestazioni pubbliche e altri vari eventi, al fine di eliminare ogni traccia di politichese. Non solo a livello di terminologia, dove vengono banditi vocaboli come «socialdemocrazia» o «altri di quei termini astrusi che la gente non capisce», ma anche come condotta di vita: e allora ecco il cittadino Di Maio che, senza accorgersene, viene filmato in treno in piedi, o Salvini che invade i talk show vestito tranquillamente in maglietta, altro che la camicia dei politici. Il culmine del gentismo è che «il popolo ha sempre ragione», come dimostrato dalle posizioni sul Referendum Greco. Chissà cosa avrebbero detto questi signori, strenui difensori del popolo, alle elezioni nella Germania Federale del 1933?
La tecnica e uno sterile pragmatismo
Martin Heidegger, filosofo esistenzialista, o, come avrebbe voluto lui, dedito all’ontologia in maniera fenomenologica (termine alieno alla gente), ci metteva in guardia da quello che era l’avanzare progressivo e inesorabile della tecnica: «la tecnica è l’oblio dell’essere» recita. Infatti una tra le cause della diffusione del gentismo-populismo è anche lo sviluppo tecnologico e il suo effetto sul tempo. Il tempo della tecnica è quello in cui i minuti diventano secondi.
Ogni tipo di trattazione deve essere sintetica, anzi superficiale, e deve andare alla base del problema: ci sono i ladri tra gli immigrati? Cacciamo gli immigrati. Ci sono dei politici corrotti? Mettiamoli tutti in galera o ai lavori forzati. Questa velocità dell’informazione, aggiunta alla molteplicità dei mezzi, porta al non verificare la notizia: e così nascono le bufale, tipo quella sui condizionatori della Gente, o sui piedi sporchi della Gente, o sui microonde per scaldare il latte della Gente. Il Web diventa una fonte di informazione sicura, al 100%. Questo atteggiamento fa parte di quello che è uno sterile pragmatismo privo di basi.
Il popolo romano, in tutte le sue declinazioni, fu un popolo non solo pragmatico, ma essenzialmente pragmatico. Non è il pragmatismo il problema. Il problema nasce quando si sacrificano gli strumenti culturali, necessari per la comprensione del reale. I romani erano sì pragmatici, ma conoscevano bene la filosofia, la storia, la letteratura e le scienze naturali, perché senza una buona preparazione risulta impossibile inserirsi costruttivamente in un dibattito politico.
L’appiattimento culturale causato dal «gentismo»
Ma alla Gente la filosofia non serve, loro hanno fatto l’università della vita, che è probabilmente uno tra le più retoriche convinzioni del gentismo. Infatti, uno studio puramente formato da esperienze non porta a forme di conoscenza se non personali, relative all’Io. Quindi all’arrivismo e all’egoismo.
Non può che essere questo il motivo dell’appiattimento culturale italiano, i cui effetti abbiamo sopra elencato, in cui la proposta politica non è più un dibattito e un confronto sui temi, bensì un rincorrersi ossessivo, come se i partiti fossero enormi multinazionali pronte a conquistare schiere di gente che vuole sentirsi a proprio agio con il prodotto, in questo caso con la proposta.
Non è un elogio dell’accademico, né si pretende che la società citi passi a memoria di Michel Foucault o di Platone, ma, a meno che la politica non voglia sprofondare, come già sta facendo, nel regno del marketing, allora qualcosa dovrà cambiare.
di Mattia Marasti
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