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Chi ha il coraggio di riderne? L’umorismo secondo Pirandello

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Ce lo ricordiamo tutti Don Abbondio, quel pover uomo impelagatosi nelle faccende, nei malaffari dei Bravi perché andava sul ciottolato sbagliato nel momento sbagliato. E quanto è visibile quest’immagine? Questo Don Abbondio che cammina col fiato corto, quest’uomo nato per incarnare l’idea di una medietà perfetta, di una fede che non sa decidere. Con Don Abbondio le armi si tengono ben riposate dentro al fodero, legate alla cintola. In fondo è Manzoni stesso a declamare quanto sia innocuo questo pover uomo: lui è vaso di coccio fra vasi di ferro, siamo forse così vigliacchi da arrabbiarci per le sue colpe, per i danni di cui lui è l’origine? No, di certo no.

In Don Abbondio, che Leonardo Sciascia vedeva quale riflesso dell’Italia passiva, dell’Italia che vince, nel bene e nel male, lasciando che sia il male a passare, e non inseguendo il bene; ecco, in Don Abbondio Luigi Pirandello invece trovava il ritratto dell’umorismo. Perché? Semplice: cosa di più umoristico della fede, di cui Don Abbondio è comunque vicario, della fede che attraversa le storture e i difetti e i vizi dell’umanità? La fede idealistica e grande l’incarnano Federigo Borromeo e Fra Cristoforo; ma ci voleva l’ombra di Don Abbondio, profilatasi a margine ma ormai vera protagonista dei Promessi Sposi, a ricordarci la triste imperfezione umana.

Il sentimento del contrario

Questo è, secondo Pirandello, l’umorismo. Don Abbondio ne rappresenta, come dire, un’oggettivazione sublime e compiuta. Cosa fa di Don Abbondio (come di Don Chisciotte, di Tristam  Shandy, di Marmeladoff) una figura umoristica? Dice Pirandello che a rendere umoristico un oggetto d’arte è il sentimento del contrario. Ascoltiamolo:

«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere […]. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei […] da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario».

Della vecchia signora imbellettata, con il trucco che sbava, le rughe malcelate, noi vorremmo ridere; ma anche a farlo non ci riesce, se non presi da un po’ di amarezza sulle labbra. Lo stesso vale per Don Abbondio: è derisione o pietà ciò che proviamo per lui? Entrambi. È perplessità, dice Pirandello, «vorrei ridere, rido, ma il riso mi è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa». Certo che Leopardi poteva ben sostenere che chi ride è padrone del mondo. Ma pochi si sentirebbero di sganasciarsi a cuor leggero davanti alla vecchia signora o davanti a Don Abbondio.

umorismo

Chi ride dell’umorismo?

È la riflessione che interviene nella creazione dell’oggetto artistico e smorza il sentimento, sentimento che altrimenti sarebbe un tutt’uno con l’oggetto che lo provoca. È il flettersi del sentimento per via della riflessione, dice Pirandello, che dà vita all’umoristico: noi riflettiamo, noi sentiamo come un contraccolpo che la nostra allegria, tristezza, invidia, gelosia – ciò che insomma è suscitato dall’oggetto d’arte, per così dire rimbalza di fronte al Don Abbondio di turno, e torna indietro proprio come l’immagine dello specchio: invertita.

Questo, secondo Pirandello, è il peculiare processo estetico che informa l’umoristico, e ne fa un fenomeno serio, e introspettivo, e tragico più di quanto ci si aspetti. L’umorismo stesso è, di fatto, umoristico: noi ci scherziamo, noi trattiamo con leggerezza ciò che ci vien detto umoristico; ma poi a colpirci è la riflessione, è il sentimento che dietro, per così dire, al palcoscenico ci siano attori che faticano, o che soffrono.

Ecco, l’umorismo assume in Pirandello una coloritura quasi metafisica: esso è lo specchio di una vita che in sé non ha direzione né senso, che è, alla Moravia, indifferente, e che ci scansa, ci evita, non si lascia acciuffare; ma noi, imperterriti, tentiamo di fissarla e mascherarla, come a cristallizzare un fiume di lava che scorre dall’alto verso il basso.

Possiamo dirlo: è questo il fiume che costrinse alla follia Vitangelo Moscarda, che fece dichiarar morto all’umanità Mattia Pascal, che talvolta si palesa sotto forma di un fischio di treno, e che ci richiama all’insensatezza di ciò che noi vorremmo sensato. Pirandello ha visto la coscienza intimamente umoristica dell’animo umano, che corre dietro alla Luna domandandole perché, e nel farlo s’imbelletta aspettando una risposta. Proviamo, noi, a riderne.

 


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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