Sulla parete della Chiesa di Sant’Antonio, a Pisa, si trova un murale gioioso, colorato e assolutamente inconfondibile: è l’ultima opera pubblica di Keith Haring, l’ultima prima di lasciare troppo presto questa vita. E proprio al mondo – a cui manca più che mai, che lo celebra assiduamente e sempre troppo poco per la sua grandezza – il suo occhio vigile e ribelle ha dedicato quest’opera grandiosa nata dall’incontro tra la propria anima e quella di uno studente pisano conosciuto a New York. Tuttomondo, infatti, è il titolo del grande lavoro, divenuto nel tempo il simbolo della rinascita di Pisa negli anni ’90. Un inno alla vita e alla felicità, alla pace e all’armonia che potrebbero governare l’universo intero se solo si vivesse, sul serio, in comunione di anime.
La realizzazione del murale Tuttomondo coinvolse, senza eccezione alcuna, l’intera comunità pisana: artisti, intellettuali, bambini, frati, studenti curiosi, tutti parteciparono a quest’impresa titanica, grande nelle intenzioni e nelle conseguenze fruttuose. Il comune toscano fornì i permessi e la mano d’opera. Keith Haring fece proprio, come di consueto, la grande bellezza dei colori pastello del quartiere Sant’Antonio. Così una parete bianca iniziò a popolarsi degli stravaganti personaggi del (Tutto)mondo haringiano.
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Su una superficie di 180 mq, 30 figure concatenate tra loro rappresentano con estrema semplicità l’armonia del mondo. Ogni personaggio è raffigurato in una posa particolare, assolutamente simbolica, per delineare la quale Keith Haring parte dal contorno nero a linea continua, fondamentale per contenere il colore, che per l’artista rappresenta il sangue, la linfa vitale.
Ispirato allora da quelli degli edifici dei lungarni pisani (chiari e sulle tonalità del giallo ocra e dell’azzurro), Haring comincia il riempimento, servendosi di quei colori pastello che caratterizzano, in fondo, buona parte del suo universo grafico.
La pace, l’armonia dell’universo, è espressa simbolicamente da ogni personaggio di Tuttomondo, come ben dimostrano gli animali antropomorfizzati, rappresentazione della cura dell’uomo per la natura, o ancora le tre razze del mondo, una dentro l’altra mentre tengono in mano un cuore, attaccate dal serpente del male e protette da forbici umanizzate a indicare la capacità dell’uomo – se solo lo volesse – di salvare se stesso dal razzismo.
C’è poi il ciclo interminabile della vita rappresentato da un uomo il cui braccio entra nel corpo e si unisce, come il simbolo dell’infinito alla sua gamba; a croce pisana, composta dalle quattro figure unite al centro; una donna con un bambino in braccio, simbolo della maternità; la televisione, simbolo positivo di apertura verso il mondo ma pericolo nocivo se mal utilizzata e infine l’uomo scala, simbolo di ambizione ed elemento danzante.
Tutte le figure di Tuttomondo, del resto, ballano a ritmo di musica africana, come illustrato dalle piccole linee nere vibranti e dai bastoni gialli agitati dal cane e dall’uomo che sostiene il delfino.
Keith Haring anche, alla fine, rappresenta se stesso. È l’uomo piccolo e giallo in basso, in posizione di fuga. Quasi mimetizzato, pronto ad allontanarsi alla chetichella, l’artista consegna l’opera alla città di Pisa e al mondo. Non c’è più bisogno della sua presenza, la grande arte può ormai camminare con le proprie gambe. Una volta partorito da sé il frutto del proprio lavoro può avere vita propria; lo dicono gli scrittori misteriosi di oggi, lo sapeva bene anche Keith Haring.
Mai ci si sarebbe immaginati però, nel 1989, di sentire così tanto la mancanza della mano creatrice. Un anno dopo Haring morì di AIDS, e il mondo della street art avrebbe voluto forse più tempo per conoscere uno dei suoi padri. Avrebbe avuto bisogno di lui per fare domande, per progredire pian piano, per seguire una luce su un nuovo cammino, proiettato ancora, verso la strada dell’armonia.