È del 1° maggio il debutto come direttore principale alla Scala di Riccardo Chailly, con una Turandot che segna anche l’inaugurazione dell’Expo milanese. La “prima” dell’opera, trasmessa in diretta su Rai5, ha riscosso un successo unanime di pubblico ed un riscontro della critica in larga parte favorevole. Lo spettacolo è in cartellone in otto date, fino al 25 maggio.
L’impegnativa regia, firmata da Nikolaus Lehnhoff, è vivificata da un’impeccabile esecuzione del Coro, e non soltanto per quanto riguarda la parte vocale. Le scene, infatti, minimali e asciutte, si fanno apprezzare per pulizia ed eleganza, e segnano un gradevole ritorno all’assenza di particolari stravaganze, che tanto spesso oggi vogliono compensare con discutibile concettualità le carenze di altri elementi della produzione. Non mancano le emozioni di alcuni momenti: sapienti ed educati cromatismi fanno dell’apparenza visiva un’esperienza ben riuscita.
La direzione di Chailly si distingue per precisione, compostezza e pulizia: nessuna invenzione inusuale, nessuna scelta fine a se stessa. L’orchestra mostra una purezza di suono invidiabile ed una piacevole precisione nel rapporto con il palcoscenico: veramente trascurabili le imprecisioni e il tutto rimanda ad una compiutezza quasi discografica.
Sui cantanti, e sui loro costumi, possono essere spese parole più ampie e diverse. Il Calaf di Antonenko appare, in tutta franchezza, se non negativo certamente inadeguato. Non cattivo, beninteso; senza dubbio all’altezza di una produzione scaligera; eppure, pare carente del quid che farebbe entusiasmare per un ruolo tanto importante nel tempio mondiale della lirica, in un’esecuzione che si propone di inaugurare l’evento italiano più pubblicizzato dell’anno corrente. Intonazione non impeccabile, talora crescente e talora calante; voce dal colore entusiasmante ma forse inadeguato al personaggio, che richiederebbe un impeto drammatico a lui poco affine. Lo si confronti con un Del Monaco qualsiasi per avere un’impressione dell’abisso che lo separa da un Calaf memorabile. Ciò che tuttavia più indispone è un’arte scenica ed una mimica dai tratti quasi grotteschi nell’uniformità: l’impressione è quella di un’impostazione caricaturale, al livello dei luoghi comuni sui cantanti lirici. Asciutto il “Nessun dorma”.
Turandot, l’italiana Nina Stemme, possiede uno strumento vocale indubbiamente eccezionale. Un’interpretazione grandiosa, su cui tuttavia qualche ombra è gettata da una dizione imprecisa e da costumi dai tratti imbarazzanti. Merita sconcertata menzione la mezzaluna che regge, che non si capisce bene cosa dovrebbe essere: più che uno scettro, pare un cornetto napoletano delle dimensioni di un boomerang.
Le migliori parole vanno spese per il baritono Angelo Veccia (Ping): entusiasmante, preciso, possente e puntuale. Di altissimo livello anche Blagoj Nakoski (Pong), meno il Pang di Giobbe Covatta, esile e poco brillante. Carlo Bosi (Altoum) e Alexander Tsymbalyuk (Timur) segnano interpretazioni di grande correttezza, complessità e raffinatezza: il giudizio per loro non può che essere totalmente e senza riserve positivo. Colei che tuttavia merita il plauso più incondizionato è la meravigliosa Maria Agresta nel personaggio di Liù: commovente, assoluto, drammatico nella dolcezza più di qualsiasi impeto. Un meritato trionfo.
Il giudizio sul finale scelto, quello più recente di Berio, resta personale. Certo non rende pari conclusione emotiva dopo la commozione per la morte di Liù; ci si chiede se non valesse la pena piuttosto di concludere lì l’esecuzione.
Vale certamente la pena di ascoltare una recita di questa Turandot: le critiche da puntigliosi sono possibili, ma non ne minano il livello di assoluta eccellenza. Soprattutto per il piacere di constatare il ritorno scaligero a fasti ormai da qualche tempo dimenticati.
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