Tra i tanti dibattiti (in)utili dei giorni nostri, la questione del rapporto originale-cover, o ancora, originale-trasposizione moderna, è un argomento “che scotta”, non solo per la pubblicità o la storia dell’arte, ma anche per il cinema. Si dice che oramai “è stato detto e scritto tutto”, si pensa che le storie migliori appartengano al passato, che non ci sia più niente da aggiungere che non abbia il retrogusto del “già visto”; allora i più grandi tra i registi mondiali si sentono rassicurati nel far (ri)vivere grandi opere letterarie sul grande schermo.
Baz Lurhmann, regista australiano pluripremiato, è un maestro nel vestire di rock e glam tutto contemporaneo gli intoccabili capolavori dei secoli scorsi. C’è chi lo ha giudicato un criminale, un usurpatore della sacralità immortale della Letteratura shakespeariana quando, in Romeo + Juliet (1996), Mercuzio bucò lo schermo con le movenze e l’irriverenza di un fac-simile del rapper Will I.Am, mentre Paride si vestiva da astronauta e la madre di Giulietta era un’incestuosa e civettuola Cleopatra. Per fortuna, c’è anche chi lo vede come un visionario, un Duchamp della macchina da presa, che parte da un prodotto preconfezionato, un ready-made, riproponendolo al grande pubblico sotto le spoglie contemporanee ai fini di suscitarne la curiosità.
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Dopo il flop di Australia (2008), una storia scritta dallo stesso Lurhmann (che avesse anche questo film quell’olezzo di “già fatto”?), il regista delle e dalle mille contraddizioni torna alle origini con una nuova sfida: (ri)portare al cinema The Great Gatsby (in uscita nelle sale italiane il 12 maggio), capolavoro di Francis S. Fitzgerarld del 1925.
La storia è quella dell’eroe romantico Jay Gatsby, il cui animo da sognatore non trova terreno nell’abbagliante America dei “roaring twenties”, l’epoca della “jazz age”, dove sfoggiare una Rolls Royce giallo canarino è tutto. Al materialismo sfrenato dell’epoca, Fitzgerald oppone la solitudine del protagonista, che non tocca alcool, organizza feste come un perfetto party planner, ma non vi prende parte. Gatsby vive nel passato, nel ricordo ossessivo di un amore dal mancato finale con Daisy Fay, ricca rampolla newyorchese dagli abiti di lino bianco e la voce squillante. Cercando di riavvolgere il tempo crudele delle lancette dell’orologio della vita, Gatsby è annientato dal peso di un passato che non può rivivere, guidato da un’ideale che ne causerà l’inesorabile distruzione.
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Per gli appassionati, inevitabile sarà il confronto con l’ultima delle tre versioni cinematografiche dell’opera, che vedeva Robert Redford e Mia Farrow nei panni di Gatsby e Daisy nel 1974. Lo scaltro Lurhmann, tuttavia, renderà quasi impossibile una pedante comparazione, perché il suo Gatsby, il nostro Leonardo di Caprio, veste Prada. Dimenticatevi la compostezza e l’eleganza quasi statuaria, statica, di Redford: casa Gatsby versione 2013 spalanca le porte a personaggi scintillanti, vestiti di lustrini e boa colorati, che per eccentricità ricordano le atmosfere lussureggianti di Moulin Rouge (2001). Diamanti Swarowski che cadono dai soffitti della maison come fossero champagne, mentre i costosi completi Brooks Brothers vestono i gentiluomini invitati, che ballano per dimenticare il vuoto delle loro esistenze sulle note ritmate di Jay-Z, Beyoncè, Lana del Ray e Florence + The Machine.
Lurhmann promette divertimento e dramma sulla scia di uno studio approfondito della personalità di Fitzgerald, che ha impegnato tre anni della sua carriera, restituiti poi a chi, come la giovane attrice Carey Mulligan, non aveva mai letto il libro, né visto le precedenti versioni cinematografiche . Viene alla luce, quindi, un regista cultore dell’originale, che non distrugge, ma innova sulle radici del passato, perché, come recita la chiusa del libro, «continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
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