Definire Tiziano Terzani un viaggiatore è riduttivo; una sola parola non può circoscrivere e imbrigliare ciò che è stato veramente.
Dottore in Legge ma giornalista per scelta, inviato in Asia dagli anni ’70 sino agli ’80, «quel ragazzino nato in un letto di via Pisana» è stato soprattutto un Uomo, un vero amante dell’Umanità. Viaggiare per Terzani era come aprire innumerevoli finestre sul mondo, un mondo fatto di odori, sapori, usanze, tradizioni, uomini.
Il suo scopo era guardare oltre, cercare la verità dietro ai fatti, uscire dalle righe e occuparsi del diverso per scoprire in esso una parte di sé che gli mancava, un mondo che aveva dentro e voleva sempre, solertemente, ammirare in profondità.
«Sono un esploratore e vado a esplorare», aveva detto in un’intervista a un giornale inglese e così lo ricorda anche la moglie Angela, compagna di una vita, vero punto cardinale e sorgente di forza per quell’uomo tenace e affabile che è stato Tiziano Terzani. In ogni cosa cercava l’Uomo, quell’essere capace di bellezza ma in grado di generare tanta crudeltà che lui, ritrovatosi «nelle storie del suo tempo», aveva verificato de visu e narrato sulle amate carte.
La guerra in Vietnam, il Laos e la Cambogia, ma anche le Filippine, l’URSS, la bomba atomica sono tutte storie contenute nella sua incredibile vita; hanno lasciato in lui un segno dato la possibilità di raccontare, attraverso le pagine del suo amato Der Spiegel, le impressioni, gli incontri e le riflessioni, di rielaborare le cicatrici della storia, fino a giungere alle più mature rielaborazioni, pensieri compiuti, gemme rare poi riprese e condivise col figlio Folco nei bellissimi dialoghi de La fine è il mio inizio.
Il suo modo di fare giornalismo in fondo, come amava dire, se lo era quasi inventato, perché «questo viaggiare da giornalista non è solo un viaggiare alla ricerca di quattro fatti da raccontare in un pezzo. È una visione della vita». Fece sua la massima di Mark Twain rivolta ai giovani circa la necessità di allontanarsi dal porto sicuro e di esplorare, sognare, scoprire, osare scostare le foglie per cogliere cosa v’è oltre, prendere il mare del non saputo; quando, con un amico, al termine del primo anno di liceo andò in Svizzera a fare lo sguattero, tornando, poi, in autostop attraverso Francia, Belgio e Germania capì che la sua strada «era quella di andare a guardare».
In tutti i paesi in cui visse imparò la lingua, frequentò le persone, conquistandole con il suo carisma e la risata contagiosa, si vestì come loro per non voler essere un intruso, un turista che morde e fugge, compra souvenir, fa qualche fotografia e torna a casa con un pugno di mosche in mano. Voleva suggere il midollo profondo, il nettare zuccherino della vita. Non è facendo un viaggio organizzato da inutili agenzie che si impara a conoscere un luogo, che si scoprono i suoi più reconditi anfratti, i misteri e nemmeno la cosa più importante, le persone; ci si approria di quei piccoli pezzi di mondo solo se si tolgono le lenti del turista e si guarda al mondo con gli occhi curiosi e fanciulleschi dell’esploratore.
Non voleva tra i piedi un fotografo bravissimo ma frettoloso che, mentre un contadino racconta la sua storia, è interessato solamente a catturare il volto di quello con la giusta angolazione. Faceva lui stesso le fotografie con cui corredava i suoi articoli; comprò una Leica M3 al mercato di Saigon e con quella girò, documentò e narrò la Cina, il Giappone, le isole Curili e la Cambogia.
Da uomo di sinistra, che credeva fermamente nei valori umani, voleva andare in cerca di un mondo diverso per capire se esistessero possibili alternative di tipo sociale ed economico al modello Occidentale, così capitalistico e disumano. La sua ricerca lo condusse in Asia, luogo che sarebbe poi diventato la sua casa, il suo rifugio. In questo senso la sua più grande delusione fu il Giappone, quell’Oriente moderno che finì per essere causa della depressione reattiva che lo colse e da cui uscì solo quando Der Spiegel s’inventò per lui un ufficio a Bangkok, nella sua Asia calda.
Il Giappone era il contrario di ciò che cercava, non era più la casa delle tradizioni, del legame con la terra, l’uso dell’ozio e della lentezza come pratiche di vita, la terra della cura, ma era diventato l’esempio del più preciso processo di emulazione del modello occidentale.I giapponesi, però, avevano fatto di più, erano andati oltre, disumanizzando l’uomo sottoponendolo a turni di lavoro massacranti, fino a sostituirlo con le macchine che davano il “buongiorno” all’entrata di un negozio. Quelli non erano più uomini, erano ruoli. E Tiziano, che ovunque cercava il lato umano, non potè che restare deluso e amareggiato da tutto questo.
Amò il Vietnam, quel paese così piccolo nelle dimensioni ma tanto grande nello spirito, in grado di far fuori un colosso annichilente come gli Stati Uniti d’America; qui incontrò i vietcong con cui passò diverse notti in villaggio, li seguì in piroga, mangiò con loro gallette di pasta di riso e condivise momenti indimenticabili. Ed è qui, in queste semplici e determinate persone, in questi altrettanto semplici, ma profondissimi luoghi, che sentì la Storia, quella con la S maiuscola, nel momento in cui vide i primi carrarmati entrare a Saigon, carichi di ribelli avanzanti al grido di «Giai phong!».
Un modello più vivo e sentito si era opposto all’Occidente, non aveva ceduto come il Giappone.
In Cambogia rischiò di restare ucciso quando, varcato clandestinamente il confine a Poipet dove i khmer rossi erano già giunti, per poco non venne fucilato. Lo salvò il sorriso, il coraggio di ridere e dire in cinese «Sono italiano!», esclamazione fortunata con cui ottenne il benvenuto nella Cambogia liberata. La sua determinazione a capire il mondo tramite le lingue e lo spirito dei luoghi gli salvò la vita.
Non è un caso, forse, che fu proprio la lingua mandarina a farlo: la Cina fu, infatti, il suo più grande amore, il luogo in cui incontrò parte di quel mondo che andava cercando. Aveva studiato il cinese alla Columbia University, sapeva tutto ciò che un uomo potesse sapere all’epoca su quel territorio immenso e ricco di storia. Era determinato, voleva raggiungerla e toccarla con la mano viva di un amante, quand’ecco che, finalmente, ottenne l’incarico di corrispondente.
Di natura affabile e comunicativa com’era non stentò a crearsi una vasta cerchia di amici, mandò i figli alla scuola cinese, viaggiò sui treni conversando con la gente, stabilendo rapporti umani che gli permisero di assaporare l’essenza del luogo, di “diventare” cinese nelle abitudini. Ma, come un grande amore che ci illude e poi abbandona, la Cina lo deluse: arivarono l’espulsione e il ritiro del passaporto e ci volle tanto prima di poter tornare a sentirsi a casa in un luogo, tanto grande fu la delusione.
Ci riuscì in India, ma prima ancora a Bangkok dove visse nella Casa della Tartaruga, in perfetto stile thai come da lui desiderato, in profonda e completa armonia con la terra e il mondo. Da esploratore viaggiò poi per un intero anno senza prendere aerei perché anni prima un indovino di Hong Kong lo aveva messo in guardia dal farlo; questo gli diede modo di parlare dell’altra faccia di ogni paese, di quell’aspetto dell’Asia che lo aveva affascinato con le sue superstizioni, le sue tradizioni, il suo variegato panorama umano. Vedeva bambini vendere acqua alle stazioni, adulti trafficare, sciamani vaticinare.
Quell’alternativa all’Occidente, quella solidarietà tra uomini, quella biodiversità ancora possibile in natura che tanto cercava riuscì a trovarla, definitivamente, nel Mustang e nelle isole Curili, quei luoghi misteriosi in capo al mondo in cui la modernizzazione non era ancora giunta brandendo il vessillo dell’omologazione. La vita scorreva ai ritmi della natura, attraverso e seguendo la luce e il vento, l’acqua e le sue forze, la terra e i suoi nutrimenti.
Andava controcorrente Tiziano Terzani, non esitava a scegliere le soluzioni più difficili e avventurose, non aveva dubbi circa la necessità di portare Folco con sé a cercare il tesoro di Yamashita piuttosto che spalmarsi al sole in Costa Azzurra. Scelse l’India come luogo per mettere le radici di una nuova vita e, sebbene il giornale chiedesse notizie dell’economia e del boom indiano, lui preferiva andare per i deserti del Rajasthan e da lì fare piccoli reportage o comunicare piccole notizie fuori tema rispetto alle richieste. Entrò a contatto con i sadhu, cercò gli effetti che la predicazione di Gandhi aveva prodotto sulle persone e li trovò, salvo poi sentirsi tradito quando il paese della non violenza decise di procurarsi la bomba atomica.
Dopo l’ennesima delusione decise di provare a sentire in maniera ancora differente la terra: scelse di salire sull’Himalaya, su e sempre più su per vedere se le cose dall’alto si capiscono meglio; comprese che la vita è anche altro, che la soluzione è qualcosa al di là, è il miglioramento di noi stessi: «tutti dobbiamo chiederci (e sempre) se quel che stiamo facendo migliora e arricchisce la nostra esistenza. O abbiamo tutti, per una qualche innaturale deformazione, perso l’istinto per quel che la vita dovrebbe essere, e cioè soprattutto un’occasione di felicità?».
La natura incontaminata, con la neve e l’immenso splendore delle montagne intorno gli conferirono grandezza, aprirono la sua mente, lo fece respirare davvero e profondamente dandogli modo di capire che «tutto sommato, alla fine, c’è un senso».
Quando se n’è andato, con la leggerezza di una piuma che cadendo genera un silenzio assordante, tanti hanno immaginato che, sulla cima dell’Himalaya, guardando il cielo avesse gridato «Upar, upar!», andando su, sempre più su. E così, con quella semplicità che è sempre la sua spiazzante caratteristica, avrà concluso la sua vita Tiziano, raggiungendo quella fine che, per dirla con le sue parole, «è anche un inizio» perché il tempo è circolare, si ripete: «vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra».
Così avrà concluso anche il suo ultimo, grande viaggio, quello di un Uomo amante degli Uomini vissuto con l’ossessione di godere delle grandi piccole gioie del suo tempo, della Storia, della Vita.