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«The Post», il giornalismo perduto secondo Spielberg

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1 minuto di lettura

Uno spettatore entrato in sala nel 2017 cercava quasi sicuramente in The Post il brivido precedentemente provato nell’allora recente Il caso Spotlight. Il ritmo, la velocità, il sentimento di un giornalismo passionale condotto da figure più simili a Detective che a reporter. The Post è però molto diverso da tutto questo. Più vero, direbbero per contrario alcuni. Ma non è del realismo che si appropria il racconto diretto da Steven Spielberg. Anzi, proprio come Il caso Spotlight condivide con la dimensione del reale solo il rapporto tra fatti storici e narrazione. Nel modo però con cui questa è condotta nemmeno Spielberg rinuncia all’eccesso, seppur in modo inverso. Lì dove si potrebbe accelerare, fare della storia un agile Romanzo, Spielberg in The Post si sofferma, rende eccessivamente veritiera la realtà, rallentando il racconto per trasmetterne l’importanza.

Insomma, Spielberg non semplifica, dilata, allunga, vivifica. Come fa un lettore talmente appassionato da rileggere la propria pagina preferita sottolineando con attenzione ogni singola parola. The Post è per questo un lettera d’amore vera e sentita, dedicata a un giornalismo forse perduto e letta con cura a tutti noi.

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Alessandro Cavaggioni

Appassionato di storie e parole. Amo il Cinema, da solo e in compagnia, amo il silenzio dopo una proiezione e la confusione di parole che esplode da lì a poche ore.
Un paio d'anni fa ho plasmato un altro me, "Il Paroliere matto". Una realtà di Caos in cui mi tuffo ogni qual volta io voglia esprimere qualcosa, sempre con più domande che risposte. Uno pseudonimo divenuto anche canale YouTube e pagina instagram.

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