The Hateful Eight è l’ottavo film della carriera di Quentin Tarantino. Già campione di incassi, racconta la storia di 8 brutti ceffi che si ritrovano bloccati in un emporio a causa di una tempesta di neve. Anche questa volta il regista non delude e regala un capolavoro.
Partiamo con una premessa da tenere in mente per tutta la durata del film, che, anticipiamo subito, merita di essere visto assolutamente. The Hateful 8 è un film per adulti. O meglio, è un film per gente matura, per chi il cinema e in particolar modo il cinema di Tarantino non lo vive solo come un piacere derivato da sangue, violenza e linguaggio scurrile. Non preoccupatevi, ce ne sarà in abbondanza anche in TH8 e anzi, si toccano nuove vette dello splatter (c’è anche chi ha accostato questo film a un vero e proprio horror). Ma se ci si aspetta un film di 3 ore dove non si veda altro che azione e tanto sangue, allora è meglio virare verso altre produzioni del regista statunitense. Perché qui, a parte il divertimento offerto dalla violenza gratuita, c’è moltissima altra carne al fuoco, che però non tutti potrebbero apprezzare.
La trama, almeno all’inizio, è abbastanza semplice: siamo nel Wyoming, pochi anni dopo la guerra civile americana. Diretti a Redrock ma ostacolati dall’arrivo di una forte tormenta, due cacciatori di taglie (il Maggiore Marquis Warren interpretato da Samuel L. Jackson e Jonh Ruth, interpretato da Kurt Russel), un quasi sceriffo di contea (Chris Mannix, interpretato da Walton Goggins) e altri brutti ceffi tra cui l’inglese Oswaldo Mobray (Tim Roth) e la prigioniera Daisy Domergue (Jennifer J. Leigh) si rifugiano all’”emporio di Minnie”. Confortati da un camino acceso, un caffè dal gusto discutibile, uno stufato di dubbia provenienza e un buon bicchiere di brandy, i nostri si ritrovano presto a dover fare i conti con la reciproca antipatia, scatenata soprattutto dalla loro appartenenza alla fazione dei nordisti o dei sudisti durante la guerra civile da poco conclusasi, che ha lasciato delle ferite ancora aperte e dolorose.
Come dicevamo, TH8 è un film per intenditori, per chi sa aspettare. Per chi, durante le prime due ore in cui, udite udite, sembra non succedere quasi nulla, si fida della mente esperta del regista, nella convinzione (fondata) che l’attesa sarà valsa la pena. E magari tutte le attese fossero così: Tarantino ci lascia tutto il tempo di godere con occhi e orecchie spalancati dei campi lunghissimi, dello scenario mozzafiato, dei suoni, così minuziosamente riprodotti come solo chi ha una maniacale cura del dettaglio può fare – sentire i denti di Samuel L. Jackson e Kurt Russel mordere la pipa mentre parlano delle loro esperienze nella guerra civile fa venire voglia di comprarne una appena usciti dalla sala. E mentre ci delizia in questo modo, il regista si prende tutto lo spazio necessario per introdurre i suoi personaggi, uno a uno, con calma, dialogo dopo dialogo, scena dopo scena, lentamente, «come la melassa». E quando ci siamo ormai abituati ai ritmi lenti e rilassati di questa narrazione dove il tempo della scena e quello del racconto quasi si equivalgono, a partire dai due terzi del film in poi assistiamo invece a un crescendo di ritmo e tensione, che sfocia poi nella seconda parte del film, molto più violenta, molto più pulp. Ma non andiamo oltre per non rovinarvi la sorpresa.
La colonna sonora accompagna il film definendone con precisione e stile le atmosfere. Morricone non è lo stesso degli spaghetti western anni ’60. Nossignore. In TH8 abbiamo il piacere di ascoltare un Morricone nuovo, moderno, che rompe con la tradizione. «Tarantino si aspettava il Morricone de Il buono il Brutto e il Cattivo ma io non sono più quello, ho voluto chiudere con il passato». E bisogna dire che la coraggiosissima sfida è stata affrontata egregiamente.
Il film è un continuo dialogo tra spazi chiusi e aperti, tra la imponente catena montuosa innevata e la carrozza, temporaneo rifugio dalla tormenta, e poi di nuovo da questa all’emporio di Minnie. I nostri sono costretti a una claustrofobica e mal sopportata convivenza, che rivela i lati più nascosti del loro carattere. Com’è lecito aspettarsi da un film di Tarantino, non ci sono buoni o cattivi, o meglio, tutti possiedono quella malvagità ben nota dei suoi personaggi, ma in ognuno di loro c’è sia luce sia buio. Inoltre, tutti agiscono secondo un codice ben chiaro, forgiato sia dalle vicissitudini personali sia dalla triste esperienza della guerra civile.
I personaggi sono caratterizzati e recitati in modo molto convincente. Il Maggiore Warren ha l’onore di essere una delle migliori, se non la migliore interpretazione di S.L. Jackson di sempre (incredibile che non abbia ricevuto nemmeno una nomination agli Oscar). Ex schiavo arruolatosi tra le file dei nordisti, se ne va in giro con una lettera di Abramo Lincoln nel taschino. È vendicativo e spietato e ha il classico senso dell’umorismo di chi prima ti saluta e poi ti infila una pallottola nella schiena. Una nota di merito va senz’altro anche a Jennifer Leigh, che lascia quasi senza parole nei panni della spietata fuorilegge Daisy Domergue. A tratti fredda e calcolatrice, a tratti pazzoide, rimane un personaggio indecifrabile per tutto il film, complici anche le pessime condizioni in cui si trova il suo viso, che potranno solo peggiorare.
Dal punto di vista tecnico, Tarantino fa grande sfoggio delle sue capacità, per esempio nei cambi di messa a fuoco. Nelle (molte) inquadrature in cui ci sono due o più piani importanti per la narrazione, e in particolar modo quando due personaggi su piani diversi dialogano tra loro, la macchina focheggia senza sosta da uno all’altro, ma con una tale fluidità e precisione da risultare una gioia per gli occhi. Il regista si diverte e porta all’estremo questo processo, ma vi renderete conto da soli dove.
Tarantino è inoltre abile nello sfruttare la ridotta latitudine di posa della pellicola, usandola a suo favore per regalarci delle silhouette che rasentano la perfezione. Un esempio è la scena in cui il Maggiore Warren e John Ruth, seduti in carrozza, parlano con lo sceriffo, che si trova fuori, e meditano se dargli o meno un passaggio. Con la macchina da presa alle loro spalle, dei due vediamo solo le sagome e alcuni lineamenti appena accennati dei loro profili, quel tanto che basta per rendere tridimensionali le silhouette. In secondo piano invece vediamo chiaramente lo sceriffo e il paesaggio innevato circostante.
Per concludere, The Hateful 8 è un’opera d’arte, un tributo alla storia americana che vuole, come lo stesso Tarantino ha dichiarato, rappresentare anche la contemporaneità, facendo dei suoi personaggi una metafora degli americani di oggi. Il tutto accompagnato da un impatto visivo e sonoro che raggiunge nuove vette di perfezione e da una recitazione superlativa, perlomeno di una buona fetta del cast. Volendo trovare una pecca, il cambio repentino di ritmo (e forse anche di genere) dalla seconda ora in poi, possono spiazzare e non risultare gradevoli a tutti, ma se considerato nell’insieme del film, il tutto assume una forma molto precisa e dà un’idea di quale livello di maturità artistica abbia raggiunto il signor Quentin Tarantino.
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