È difficile parlare di un film come The Danish Girl, un’opera che affronta in punta di piedi un tema delicato e ancora così marginale come la transessualità. La pellicola, diretta da Tom Hooper (premio Oscar per Il discorso del re), si ispira al romanzo di David Ebershoff La danese (2000). Con quattro candidature ai premi Oscar, il film reinterpreta la vera storia di Lili Elbe, prima trans della storia a essersi sottoposta a un’operazione per la riassegnazione sessuale.
Siamo nella Copenaghen del 1926. Einar Wegener (Eddie Redmayne) è un artista piuttosto celebre che dipinge prevalentemente paesaggi. La moglie, Gerda (Alicia Vikander), condivide la passione per l’arte, ma i suoi ritratti non sono considerati abbastanza di spicco dalla critica. Einar e Gerda sono una coppia stabile: sono sposati da anni, cercano da diversi mesi di avere un figlio, il loro amore è romantico e passionale al tempo stesso, vero, puro. L’unica particolarità di questa relazione e l’incredibile forza della moglie: Gerda è una donna molto indipendente per l’epoca, sa il fatto suo, è lei a fare la prima mossa con il marito e ha l’abitudine di restare sola con gli uomini per dipingerli.
Sembra che nulla possa scuotere il perfetto equilibrio della coppia, ma il protagonista nasconde un grande segreto, forse da tempo dimenticato, che riemerge quasi per caso. Gerda deve completare un quadro, ma la modella non si presenta. L’artista chiede quindi ad Einar di posare per lei indossando le scarpe e le calze dell’amica. Imbarazzato, l’uomo accetta e il dipinto prende forma tra le risate della moglie e la timidezza mista a divertimento del marito. Quella gamba maschile coperta da delle eleganti calze femminili turba però Einar, che si osserva ammaliato e turbato. Inizia quindi una ripresa quasi ossessiva dei piedi e delle gambe: quelli della moglie per esempio vengono inquadrati più volte in momenti di grande intimità e sensualità – non a caso Einar dice di essersi innamorato delle caviglie di lei quando si incontrarono per la prima volta.
Il gioco del «travestimento» femminile continua con il supporto di Gerda, che non sembra rendersi conto del turbamento nato in Einar. La moglie decide infatti di fargli vestire i panni di una donna durante una festa, così da rendere la serata meno stressante per il marito, spesso riconosciuto negli ambienti dell’alta società per i suoi dipinti. Seppur titubante, Einar accetta di far parte di questo malizioso piano che è per sua moglie un semplice svago. Gerda crea così la sua prima vera opera d’arte: trucca il marito coi suoi pennelli, sceglie con lui scarpe, abiti e parrucchino, lo addestra alle movenze femminili, ridendo della bizzarra situazione in cui si trovano. Per finire, al protagonista viene dato un nuovo nome, Lili.
La festa è per Einar fonte di ulteriore confusione: i vestiti femminili fanno sentire il protagonista una nuova persona, gli uomini corteggiano Lili, dandole vita e forza. Da questo momento inizia un lungo percorso in cui Einar e Lili si contrappongono come una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde: l’uomo cerca di sopprimere la donna che è in lui – spesso parlando di lei in terza persona, come per distaccarsene – ma Lili diventa sempre più forte, un’ossessione da cui è impossibile liberarsi. I vestiti da uomo cominciano così a diventare una gabbia per il (o a questo punto dovremmo dire «la») protagonista: solo le lunghe gonne e il pizzo, solo la sua parrucca di boccoli rossi e la scarpette eleganti riescono a renderla serena. Einar, ripensando al passato, scopre così di essere sempre stato Lili.
Se la vita del protagonista è scossa da questa nuova scoperta di sé, anche Gerda va incontro a un grande cambiamento. Lili infatti è così affascinante che la pittrice decide di ritrarla in opere che finalmente portano la donna al meritato successo. Mentre Gerda cerca quindi la sua identità artistica, Einar si batte per scoprire e far emergere la sua vera identità sessuale. Il film è complesso perché orientamento sessuale e identità di genere sono ben differenziati tra loro: il protagonista è attratto dalla moglie e la ama, eppure Lili, essendo donna, prova piacere nell’essere corteggiata dagli uomini. Il protagonista non è semplicemente omosessuale, come alcuni medici sostengono, Einar è una donna nata nel corpo di un uomo.
Come è presumibile, i rapporti nella coppia iniziano a incrinarsi quando Gerda comprende che il gioco da lei creato sta avendo effetti devastanti sul marito. Tuttavia, la moglie gli resterà vicino in nome del loro amore sincero. Oltre alle difficoltà all’interno del matrimonio, Lili deve scontrarsi con la mentalità dell’epoca: molti medici considerano Einar un pazzo, altri una cavia su cui fare esperimenti, altri ancora uno schizofrenico. Solo un dottore proporrà a Lili un intervento chirurgico nuovo ed estremamente rischioso che potrà però ridarle il corpo che le spetta. Il finale è toccante, tanto da aver commosso il pubblico alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Il film ha ottenuto recensioni miste: se molti critici hanno apprezzato il fatto che un tema così delicato sia stato finalmente portato sul grande schermo, altri accusano The Danish Girl di essere una pellicola imprecisa e romanzata, accusa effettivamente fondata dato che il finale, pur essendo sostanzialmente fedele alla realtà, è stato in parte storpiato da alcune scelte cinematografiche. Il Fatto Quotidiano ha definito il film: «quanto di più banale, scontato e furbo possibile […] un film scialbo, insipido e pieno di luoghi comuni», sottolineando la mancanza di introspezione psicologica. Quel che conta in questo caso non sono però i dettagli, l’introspezione, l’approfondimento, ma il messaggio molto forte offerto da questa pellicola. Lo scopo non è soltanto quello di accompagnare la comunità transessuale in un lungo e tortuoso percorso che in troppi casi viene affrontato in solitudine, l’obiettivo – forse ancor più nobile – è quello di sensibilizzare il grande pubblico su un tema così difficile e apparentemente (ma solo apparentemente!) lontano dalla quotidianità.
The Danish Girl non colpisce per la regia, per i costumi, per l’interpretazione degli attori, prima di tutto colpisce per la sua veridicità: non è la storia di Einar, non è la storia di Lili, è la storia di mille altri ragazzi che nascono nel corpo sbagliato e lottano per trovare la propria via. Si tratta di storie vere che accadono ogni giorno intorno a noi, anche se in silenzio, anche se nel buio. Storie che non dovrebbero più stupirci o imbarazzarci, farci ridere o alzare le spalle – purtroppo ancora oggi le reazioni sono spesso queste – ma portarci a riflettere. The Danish Girl apre gli occhi e invita alla comprensione, all’empatia, all’immedesimazione, svelandoci un mondo che per troppo tempo è rimasto nascosto.
Non sono ovviamente mancate le censure per una tematica così seria ma difficile: negli Stati Uniti la pellicola ha ottenuto il Rating R, ovvero è stata vietata ai minori di 17 anni non accompagnati a causa delle scene di nudo e dei temi legati alla sessualità, mentre in Qatar il film è stato cancellato per «depravazione morale».
Sicuramente la vera storia di Lili Elbe – godibile nel romanzo di David Ebershoff, ormai presente in ogni libreria – offre spunti maggiori e più veritieri, ma il film risulta comunque toccante, di grande sensibilità e delicatezza, un’opera che mette in scena il dolore e la rinascita, l’amore. Forse The Danish Girl non sarà un capolavoro cinematografico, ma è un capolavoro di umanità da non perdere.
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