Teleologia della storia significa predeterminazione del movimento storico in direzione di un fine già contenuto nel decorso temporale. La storia – l’insieme delle pratiche, dei pensieri, delle prassi umane e non umane – segue un movimento che punta a una realizzazione già data. Si tratta di un modello – la “freccia del tempo” – predominante all’interno della filosofia occidentale, e incarnato nella maniera più esemplare dal penisero di Hegel. Qui, la storia si realizza nello Stato, fine ultimo di ogni moto umano. Come ha scritto Karl Lõwith, teleologia della storia significa che «la pienezza del significato richiede un compimento temporale. È possibile arrischiare un giudizio sul senso degli avvenimenti solo storici quando il loro tèlos futuro si fa manifesto».[1]
In questo senso, la direttrice del moto temporale è universale e onnicomprensiva, quasi che la Storia stessa, con la S maiuscola, e non l’uomo singolo e concreto, si rivelasse come il vero soggetto del divenire. E in Hegel, com’è noto, è lo spirito che ingloba in sé tutto ciò che avviene nella storia. Non c’è differenziazione o articolazione all’interno dell’incedere temporale dello spirito, ma una sincronia assoluta di tutti gli eventi che cadono nella contemporaneità del presente, trascinati dal futuro in direzione della fine. Lo spirito funge, per così dire, da “orologio dell’essere”, e detta alla storia il suo unico passo. In questo modo, come scrive Vittorio Morfino, «i corpi, le passioni, le pratiche, la politica […] sprofondano come vane illusioni prive di consistenza»,[2] venendo annullati nella loro concretezza dalla scansione ritmica avvenire -> passato -> presente (-> avvenire).[3]
Michel Foucault ha colto perfettamente l’esigenza che si nasconde dietro alle concezioni sincroniche e continuiste della storia: dandosi la possibilità di un sorvolo assoluto sull’intero suo corso, quella di essere un «rifugio privilegiato per la sovranità della coscienza […], l’indispensabile correlato della funzione fondatrice del soggetto: la garanzia che tutto ciò che gli è sfuggito gli potrà esser reso».[4] Si tratta di uno sguardo assoluto sul presente, una controllabilità definitiva rivolta al corso degli eventi.
Una strada alternativa a questo tipo di concezione consisterebbe nell’articolare e complessificare al suo interno quel flusso onnicomprensivo e indifferenziato che costituisce la storia. Una posizione interessante, che si spinge esattamente in quest’ultima direzione, ha di recente trovato un’elaborazione di grande spessore teorico nella rilettura che alcuni interpreti marxiani hanno proposto di concetti chiave de Il Capitale. Così, analizzando la struttura del processo di accumulazione del capitale, Massimiliano Tomba scrive che: «il modo di produzione capitalistico non produce dal nulla i propri presupposti. Si alimenta di elementi esterni/interni scanditi da temporalità storiche che esso cerca di sincronizzare. Necessita di lavoratori formalmente liberi prodotti nella combinazione di pratiche di emancipazione, dissoluzione delle autorità dei corpi intermedi, concentrazione della forza da parte dello Stato».[5]
Il capitale opera una sincronizzazione di temporalità confliggenti, di rapporti sociali e politici anacronistici, i quali vengono fatti interagire e confluire entro un’unica dimensione, quella per l’appunto finalizzata alla produzione capitalistica. Il problema dell’analisi marxiana è questo: rendere conto di come le diverse temporalità «interagiscono fra loro e con il tempo del capitale». Il discorso non è economico, ma squisitamente filosofico: il capitale livella le differenze ontologiche fra gli enti schiacciandole entro l’unica dimensione della propria temporalità, che è la temporalità “universale” del valore di scambio. Solo se potenzialmente equiparabili l’una all’altra – Karl Marx parla di “equivalenza generale” – le merci possono essere scambiate, ossia solo se vi è una misura comune che trasformi il valore d’uso in valore di scambio, allora il motore dell’accumulazione capitalistica può avviarsi. Scrive Karl Marx:
Come tempo di lavoro generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un equivalente generale, in un determinato quantitativo di tempo di lavoro oggettivato; e quest’ultimo, essendo indifferente alla forma determinata del valore d’uso in cui appare immediatamente come prodotto dell’uno, è traducibile a piacere in qualsiasi altra forma di valore d’uso in cui si esprima come prodotto di qualsiasi altro.[6]
Attraverso il tempo di lavoro necessario per la produzione di una merce, che funge in questo modo da valùta universale, avviene un salto dalla qualità alla quantità, tale per cui la merce deve, al termine del processo, essere in grado di esprime mere differenze quantitative tra sé e tutte le altre: «come materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce deve essere materializzazione uniforme e capace di esprimere differenze puramente quantitative».[7] Dunque, il capitale sincronizza una molteplicità di temporalità differenti che “incanala” e appiattisce in un’unica direzione. Il tempo del capitale poggia su temporalità altre dalla propria per renderle equivalenti, livellandole qualitativamente. È lo stesso, per ragioni diverse, che avviene nella filosofia di Hegel, dove però è la figura dello spirito che si realizza nella storia come lotta tra servo e signore a sussumere entro sé l’intero corso del divenire storico, scandendo il ritmo unico degli avvenimenti. In tutti e due i casi si assiste ad una semplificazione e un’omogeneizzazione della struttura della storia, che confluisce entro l’intelaiatura monolitica del capitale nel caso di Marx[8] e della lotta tra servo e signore in quello di Hegel.
Massimiliano Tomba indica, prendendo in considerazione le analisi marxiane, una strada che possiamo provare a seguire e applicare sotto forma di critica anche alle tesi di Hegel: riuscire a pensare una temporalità, e con essa una storia, che renda conto senza annullarle delle stratificazioni sulle quali s’installa, stratificazioni che la violenza del capitale porta sullo stesso livello sincronico. Se lo spirito, realizzandosi, discioglie nella storia il particolare entro l’universale, se schiaccia, al suo termine, il soggetto nell’oggetto riflettendosi infine nel sapere del saggio, si tratta per noi di individuare quel margine di temporalità sedimentatosi che non si lascia uniformare, che resiste all’omogeneizzazione.
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[1] K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, trad. it. F. T. Negri, Milano: Il Saggiatore, 2010, p. 25.Sul significato escatologico della filosofia della storia di Kojève, cfr. M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente. La fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojeve, Schmitt, Napoli: Bibliopolis, 2005, Cap. V.
[2] V. Morfino, Spinoza e il non contemporaneo, Verona: Ombre Corte, 2009, p. 11.
[3] Sarebbe a questo punto necessario un confronto più preciso con Hegel, per il quale, come scrive Morfino, la «sostanza assoluta costituita dall’interpenetrazione dell’Io e del Noi si dà nella dimensione temporale della presenza: Spirito = sostanza assoluta = (Io =Noi) = presenzialità». Cfr. V. Morfino, Spinoza e il non contemporaneo, cit., p. 41. In Kojève, tuttavia, questo modello mi sembra permanga ed anzi venga spinto al suo estremo, giacché vi è un presente assoluto, quello della fine, che realizza la compenetrazione di universale e particolare. Tutti i momenti della storia non sono che tappe verso questo punto terminale il quale, proprio in quanto presenza definitivamente realizzata, ricade nell’identità della natura – la cui dimensione, come sappiano, è quella dello Jetz eterno.
[4] M. Foucault, L’archeologia del sapere, trad. it. G. Bogliolo, Milano: Rizzoli, 2017, p. 18.
[5] M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Milano: Jaca Book, 2007, p. 257. Ringrazio il Dott. Missiroli per avermi consigliato questo testo.
[6] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, trad. it. E. Cantimori Mazzamonti, Roma: Edizioni Lotta Comunista, p. 33. Corsivo mio.
[7] Ivi, p. 47.
[8] Tanto è efficace questa semplificazione, scrive Marx, che si ha l’impressione che il soggetto della storia non siano i lavoratori, ma il lavoro stesso.