Ci sono spettacoli che non basta vedere una volta, ci sono spettacoli che stupiscono e di cui si vorrebbe vedere la genesi, ci sono spettacoli, come Visite, per cui è importante fare tutto ciò.
Visite, di Riccardo Pippa e della Compagnia dei Gordi, al Teatro Franco Parenti dal 20 novembre al 9 dicembre.
Il piacere del lavoro di squadra
Partecipando alle prove di uno spettacolo può capitare di provare un certo rammarico avendo la sensazione che il pubblico si perderà qualcosa: un secondo spettacolo che sarebbe importante potessero vedere tutti per la sua incidenza sociale e umana.
Il lavoro del regista è basato in larga misura sulle relazioni, sulla capacità di guidare senza imporre, di convogliare l’amore e la creatività di tutti verso la creazione di un’opera. Alcuni registi, tra questi Riccardo Pippa, sono capaci di creare un ambiente di collaborazione artistica basato su fiducia, ascolto e supporto reciproco che ci può insegnare uno stile di vita alternativo, lontano da conflitti inutili e aggressivi, lontano dall’idea di «Io» oggi fin troppo presente, e vicino a quella di «noi».
Per questo è un onore e un piacere poter partecipare ad alcuni giorni di prova di Visite con la Compagnia dei Gordi e per un redattore diviene anche un onere fare giustizia al loro lavoro e alla loro passione riportando un resoconto di quei giorni.
Un costante labor limae
Come compagnia indipendente I Gordi hanno avuto la possibilità di lavorare a lungo su questo spettacolo dedicando a ciascuna fase del lavoro uno spazio a sé stante.
In un totale di otto settimane circa di lavoro effettivo si sono occupati di drammaturgia collettiva, studio e familiarizzazione con la maschera, lettura e approfondimento, scene, costumi, musiche e luci.
Hanno lasciato che passasse del tempo tra una fase e l’altra cosicché il lavoro fatto si depositasse e si sono fino all’ultimo concessi di modificare e migliorare l’opera in tutte le sue parti.
Tutto ciò è stato possibile grazie al grande affiatamento tra attori, regista e maestranze che hanno lavorato in un’atmosfera tranquilla e, talvolta, anche goliardica, da subito percepibile anche da un osservatore esterno.
Grazie a questa forte fiducia e condivisione tutti, dal regista al tecnico, dall’attore alla costumista, hanno partecipato al superamento delle problematiche, anche le più ostiche, e a un miglioramento progressivo dell’opera arrivando così alla creazione collettiva dello spettacolo Visite ora in scena al Teatro Franco Parenti.
L’intervista
Per completare il percorso dietro e dentro Visite, oltre che per assecondare un desiderio di approfondimento su uno spettacolo affascinante, impressionante ed emozionante, è riportata in seguito un’intervista approfondita al regista Riccardo Pippa.
Ci racconti più nel dettaglio il tuo lavoro con le maschere?
Ho chiesto a Ilaria Ariemme di fare delle maschere di vecchi con molta libertà. È il nostro secondo lavoro insieme e c’è fiducia incondizionata da parte mia.
Forse inizialmente le ho chiesto di fare tot maschi e tot femmine, così che ci potessero essere delle somiglianze tra qualche attore e la maschera, ma le maschere sono sempre un mistero e, al di là delle intenzioni, finché non le provi non puoi sapere se funzionano o meno, quale sia la più efficace, quale attore sia più adatto, addirittura quale sia il sesso della maschera.
È dunque necessaria una fase di laboratorio con gli attori per scoprire l’anima delle maschere, distribuirle in modo adeguato e metterle a punto con la supervisione di Ilaria, la drammaturgia non può non tenere conto di queste scoperte.
Ilaria fa un lavoro bellissimo, le sue maschere sono davvero molto potenti e d’ispirazione per tutti. Non si procede in modo lineare quindi, ma con una direzione di massima e sempre in scoperta.
Con I Gordi c’è una prassi inaugurata già con lo spettacolo precedente. In questo abbiamo indagato maggiormente la compresenza in scena di attori con la maschera e attori senza.
Ovviamente il pubblico sa che sotto le maschere dei vecchi ci sono attori giovani e immaginiamo che questo patto di credibilità possa aprire sensi ed emozioni. Dal punto di vista del nostro agire scenico, nell’uso delle maschere, l’auspicio è sempre quello della credibilità e dell’efficacia che parte dall’osservazione del presente, di non rappresentare la presunta bontà, pietà, serenità dei vecchi, i nostri stessi cliché insomma.
Ci può essere molta disillusione nell’essere vecchi, ci si può inasprire, si può odiare gli altri e allo stesso tempo la nostra stessa solitudine, mi capita pure adesso, figuriamoci se, nell’eventualità, non proverò le stesse cose da vecchio.
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Questo spettacolo ha avuto la fortuna di poter avere una lunga gestazione sicuramente necessaria per affrontare un lavoro di creazione collettiva: secondo quali modalità avete cooperato?
Difficile fare un tracciato della creazione. Posso dire che io parto da un’immagine, poi l’abbandono perché ce n’è un’altra che mi pare più bella, poi ne arriva un’altra dal gruppo, poi ci sono i vari incontri letterari, in questo caso ad esempio Filemone e Bauci di Ovidio, La terza età di Simone de Beauvoir, Lavorare stanca di Pavese…
Poi arrivano le prime maschere e nel mentre la scenografa ha bisogno di sapere come muoversi, allora tocca dare qualche indicazione precisa che poi diventa un obbligo e meno male, perché altrimenti non ci sarebbe fine. La creazione per me è sempre molto travagliata e sulle cose tocca dormirci su, quindi è auspicabile creare su più tappe con tempi di decantazione.
In tutto questo difficile e allo stesso tempo piacevole delirio, in questo lusso delle compagnie indipendenti di provare molto, sicuramente più di quanto potrebbero permettersi, c’è sempre stato al mio fianco un orecchio paziente e sensibile che mi ha aiutato a fare ordine, a tutelarmi dal mio stesso istinto autodistruttivo, che mi ha rassicurato e, oltre agli input creativi, mi ha spesso ricordato lo stupore di certe scoperte che rischiavo di dimenticare per strada – ovviamente parlo della nostra dramaturg Giulia Tollis.
Quasi tutte le immagini che sono nate, per analogia o contrappunto hanno poi trovato magicamente un posto in Visite. Anche la primissima immagine che ho avuto e che non voglio dire per non spoilerare, dopo essere stata abbandonata, ha ritrovato il suo posto nel finale, come forse è giusto che sia.
Anche in altri spettacoli hai affrontato temi affini a quelli presenti in Visite: sono per te particolarmente cari o pensi sia importante parlarne oggi?
Parlavo prima di vecchiaia come punto di vista privilegiato.
Senza impormelo, alla fine cerco sempre di rappresentare ciò di cui ho paura. In questa fase della vita, percepisco la vecchiaia come una delle cose che mi spaventano di più, sicuramente più della morte.
La morte non ci mette in discussione, ci sei e poi smetti di esserci e la si mette in conto anche come spinta vitale; per la vecchiaia è diverso, è una condizione umana che ti rimette necessariamente in discussione e amplifica al massimo il divario tra aspirazioni e possibilità.
La paura della vecchiaia genera dei cliché e con i cliché degli alibi che rendono ancora più difficile l’accettazione della vecchiaia come parte della vita. Uno su tutti è quello di un’acquisita saggezza e serenità, una sorta di pace dei sensi, come se alla persona anziana venissero negate le pulsioni, come se non si provasse più desiderio o frustrazione e questa considerazione può portare con sé il convincimento che, in fondo, a un vecchio non serva nulla per star bene e che il vecchio basti a se stesso.
La vecchiaia è davvero un enorme tabù. In soldoni, il tabù è pensare che un vecchio possa avere i nostri stessi desideri, perché se così è, sono destinato all’infelicità. A questa negazione consegue l’isolamento.
L’auspicio nel mio quotidiano è quello di un’empatia schietta con le persone, contro la solitudine, anche per preparare il terreno per la nostra stessa vecchiaia che forse ci risulterà in questo modo, solo in questo modo, non solo tollerabile, ma anche preziosa.
Detto ciò Visite non è e non potrebbe essere uno spettacolo sulla vecchiaia. In fondo noi cosa ne sappiamo… Ci siamo lasciati andare in fase creativa a quel sentimento che potremmo chiamare nostalgia del futuro, ed è un sentimento giovane, quel pensiero a volte confortante, certo consolatorio e a tratti spaventoso che anima tutte le compagnie di amici: quello di ritrovarsi da vecchi, di avere sempre qualcuno accanto, qualcuno che ti ricorderà sempre chi sei, chi sei stato e che sei ancora al mondo.
La vecchiaia è presa come condizione umana privilegiata in cui è più facile riconoscere la nostra stessa solitudine, il desiderio di una presenza dell’altro, il valore di un incontro umano contro il circolo vizioso del pensiero e a favore di un’azione e di un sentire nel presente.
L’altro come prova del mio stesso esserci. L’esserci, l’uno per l’altro, in presenza, oltre la coppia, oltre l’amicizia, oltre un’ottica di riconoscenza e reciprocità, oltre la chiacchiera, come unica speranza di salvezza.
Siamo partiti parlando delle maschere e mi sono dilungato perciò sull’ultima stagione della vita, ma ci sono anche quelle precedenti: la giovinezza irruente e una stagione di mezzo più lunga e impalpabile, dove il conflitto tra aspirazioni e realtà non nasce da un impedimento fisico e dall’aspettativa di vita, ma dai condizionamenti sociali, dalle scelte che facciamo.
Momenti della vita contraddistinti dal rapporto di odio-amore con le abitudini, dalla voglia di rivedersi, dal richiamo della quotidianità confortevole e allo stesso tempo dal latente desiderio di rompere tutto, la consapevolezza che quelli sono gli anni dell’ultima chance con l’ansia che ne consegue, gli anni della svolta radicale, del «sì, sto facendo questo ma forse dovrei andarmene in Portogallo», del «forse sono un vigliacco», dei bilanci, della disillusione.
Tutto questo attraverso il gesto concreto e musicale, una parola-suono legata alla situazione che non veicola la storia e lo spazio di una camera da letto: la camera da letto come deposito per i cappotti durante una festa, come spazio per un “a parte”, luogo di solitudine e intimità.
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Un lavoro tecnicamente complesso eppure studiato in tutti i suoi dettagli: quanto sono importanti per te i dettagli in questo spettacolo? Hanno una valenza narrativa e/o di significato oltre che tecnica?
La narrazione procede per gesti quotidiani, concreti, riconoscibili, orchestrati con intento musicale per cercare una relazione tra le figure oltre la parola; sempre in presenza, per tentare di mostrare il sedimento del tempo sui corpi e sui legami.
Lo spettacolo precedente non aveva parole, giusto una suggestione poetica proiettata come filo conduttore. Questo spettacolo diciamo che cerca di arrivare nel finale ad una parola poetica, essenziale, piena, da uomo a uomo.
Mentre ti dico questo penso che ci siamo inventati una realtà scenica senza telefoni, social e tutta quella finta “condivisione in solitudine” a cui siamo abituati. Credo che il cortocircuito tra la nostra realtà scenica e il mondo sia dato dalla presa di coscienza di una dolorosa distanza più che dalla somiglianza.
Il tutto sarebbe miseramente consolatorio se non si trattasse di teatro: qui c’è un gruppo che ha trascorso molto tempo insieme, un tempo di ricerca umana prima di tutto e in sala attori e spettatori si dedicano tempo e attenzione a vicenda, l’uno di fronte all’altro e questo fa sempre ben sperare.
Lo spettacolo nel suo insieme è molto verosimile eppure gli elementi che lo compongono (musiche, scena, recitazione, luci) presentano quasi sempre una qualche distorsione, in questo senso come hai lavorato sulla verosimiglianza?
È un lavoro piuttosto eterogeneo dal punto di vista del linguaggio e non c’è una scelta di campo in partenza. Non saprei dirti, è una questione d’istinto, anche qui di scoperte inattese, a seconda della situazione rappresentata abbiamo agito nel modo che ci sembrava più credibile e interessante.
Sicuramente non ci interessa il realismo, il che non vuol dire che non ci interessi che il pubblico continui a credere a ciò che vede, a rinnovare il “come se” senza sentirsi preso in giro o ricattato. Forse è quello. Sento di avere sempre bisogno di ricordare quel patto, di rompere paradossalmente il realismo per essere più credibile.
È un tema gigantesco, forse il tema, ma credo di procedere per istinto, con un gruppo che antepone sempre il proprio sentire di artisti ad una presunta coerenza linguistica.
Perché la scelta di una messinscena vintage, ambientata in un passato indefinito seppur non lontano?
E qui il mio grazie ad Anna Cingi. Si trattava di trovare un immaginario essenziale e familiare insieme, senza troppi connotati temporali ed evitando la rappresentazione pittoresca delle varie epoche.
La contemporaneità per definizione non può essere familiare e non può avere quella componente di vissuto che la stanza doveva avere. È un po’ vintage, certo, ma senza un’epoca precisa.
È uno spettacolo sensoriale, materico e aveva bisogno di un’artista perfezionista e feticista come Anna. L’ho vista spremersi le meningi per mesi in cerca di un’abat-jour. Ancora adesso non è soddisfatta del paralume.
Questo è feticismo, dai, senza parlare dei continui ritocchi alla scena. Non sto scherzando. Fosse stato per me il tutto sarebbe sembrato una camera piena di modernariato, un po’ fighetta, insomma ci avrei messo dentro cose che avrei messo pure in camera mia.
E lo stesso per la scelta dei vestiti da parte di Ilaria. Anna e Ilaria, da brave artiste hanno la capacità, nel loro mestiere, di cambiare il punto di vista e di mettersi a servizio di un’idea, di una figura, di un’atmosfera senza dire «io, io, io».
Con Anna c’è stato anche un lavoro drammaturgico perché le nostre scelte spaziali hanno preceduto la stesura del copione. Molte chiacchierate e molti stimoli artistici. Anna è una vecchia saggia nel corpo di una venticinquenne, fa spavento, è come Faust.
Per finire i ringraziamenti
Sento che anche se ho parlato sempre di gruppo, non ho dato ancora sufficiente spazio agli attori. Sono attori nel senso più bello, loro scrivono sulla scena.
Per la fiducia nel lavoro e sicuramente per l’avvicinarsi del debutto, li ho visti risolvere scenicamente, con una creatività, un ascolto e una conoscenza reciproca direi commoventi, scene tecnicamente ed emotivamente molto complesse.
Prendono le sfide artistiche con professionalità e insieme leggerezza. Io questa leggerezza cerco di mantenerla negli esiti del mio lavoro, ma spesso sento che mi manca durante le prove, preso come sono da mille pensieri. Loro hanno l’immediatezza di un pensiero che procede per azioni e s’incarna subito.
È impossibile pensare a questo lavoro con un altro gruppo di attori. Voglio nominarli tutti: Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza.
Ringrazio Daniele Cavone Felicioni. Non ho mai avuto un assistente alla regia e quando Camilla mi ha proposto di chiamarne uno alla vigilia dell’ultimo periodo di prove non avevo ancora idea di quanto mi sarebbe servito.
Anche se è un attore de I Gordi, Daniele ha competenze tecniche e si è messo a servizio del lavoro con solerzia e amore, seguendo tutto il copione tecnico e gestendo i rapporti tra me e tutti i reparti. Io non sono mai stato un bravo assistente, distratto, svampito, poco intraprendente, l’ho sempre saputo e Daniele me l’ha tragicamente ricordato.
Ringrazio Luca De Marinis creatore di suoni, atmosfere e di silenzi e Paolo Casati per il disegno luci, preciso, elegante, poetico. Grazie a Camilla Galloni per l’organizzazione.
Tutti gli altri li ho visti lavorare quasi sempre al mio fianco, più o meno so cosa hanno fatto e il tempo che ci hanno dedicato. Il fatto che io non sappia cosa significhi organizzazione, questa mia beata ignoranza, è davvero un lusso che mi concede Camilla affinché io possa dedicarmi solo alla creazione col gruppo. Grazie davvero.
Grazie a Barbara Giordano che in occasione di Visite sta curando il profilo Instagram dei Gordi. Che risate rivedersi nel suo diario di bordo! Mi sono iscritto ad Instagram apposta.
Grazie a Lydia Giordano per gli splendidi disegni che ci ha dedicato. Lei non lo sa ma il disegno per le magliette è stato per me uno spunto per una delle scene a mio avviso più belle dello spettacolo.
Tanta parte del nostro spettacolo la fanno i costumi. Sono moltissimi. Ringrazio la sartoria del Parenti e in particolare la provvidenziale Simona Dondoni per averci messo a disposizione il magazzino di costumi più curato e fornito che io abbia mai visto e per averci risolto gli imprevisti dell’ultimo minuto.
Grazie a tutto il Teatro Franco Parenti e in particolare ad Andrée Ruth Shammah. È venuta a vederci a teatro, le è piaciuto quello che ha visto e ci ha detto che, se avevamo bisogno, per il successivo lavoro lei ci sarebbe stata.
È un fatto tanto semplice da raccontare quanto raro nella pratica teatrale: è raro che il direttore artistico di un teatro venga a vederti, che così su due piedi accordi fiducia ad una compagnia per una nuova produzione; è raro avere una coproduzione con un teatro così importante senza dover passare attraverso bandi, premi, e senza avere nessun nome che tira, così, subito dopo la replica di uno spettacolo.
Altrettanto raro è che si tenga fede alla parola data. Durante le prove, le sue parole ci hanno incoraggiato molto, ci ha dato qualche dritta preziosa, in diverse occasioni ci ha dedicato parole molto belle, non c’è mai stata nessuna ingerenza e ci siamo sentiti liberi di creare in uno spazio davvero bellissimo come la Sala 3.
Infine grazie a te Michele per l’interesse e il tempo che ci hai dedicato, grazie a Sik Sik, grazie a Frammenti e grazie ai vostri lettori.
ideazione e regia Riccardo Pippa
di e con Cecilia Campani, Giovanni Longhin,Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza
dramaturg Giulia Tollis
maschere e costumi Ilaria Ariemme
scenografia Anna Maddalena Cingi
disegno luci Paolo Casati
cura del suono Luca De Marinis
assistente alla regia Daniele CavoneFelicioni
produzione Teatro Franco Parenti in collaborazione con Teatro dei Gordi
Si ringrazia Sementerie Artistiche
con il sostegno del MiBAC e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura
Michele Iuculano