Quadri di introspezione, disagio della civiltà, difficile transizione fra vecchio e nuovo, brume del Nord: ecco i tratti della complessa drammaturgia del norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), a cui il Teatro Parenti dedica un percorso in due tappe. Il primo appuntamento, fino all’11 febbraio, è con Rosmersholm, una superba prova di recitazione e un’esperienza da brivido per gli spettatori.
Sperimentare l’opera “da dentro”
Esplorare Ibsen dall’interno attraverso Rosmersholm (1886), capolavoro della maturità, e renderlo esperienza sensoriale per il pubblico. Una mission impossible? No, a giudicare da questo suggestivo allestimento, che permette allo spettatore di entrare dentro “casa Rosmer”. Sparita la differenza palco-platea, la sala diventa uno spazio aperto, abbracciato ai lati dalle poltrone. Al centro, due tavoli accostati, su cui giacciono i due protagonisti, testa contro testa: immobili, occhi chiusi, mani sul petto. In fondo, un comò su cui troneggia, illuminata, la fotografia di una donna, in una cornice intarsiata. Gli abiti e l’arredamento (tre lampadari a gocce di cristallo incombono sopra di noi, oscillando spesso in modo minaccioso) rimandano al XIX secolo. Ai nostri piedi, un tappeto di fiori secchi e una moquette che imita la granulosità della terra.
A dominare è l’ambiguità, accentuata dall’oscurità spettrale, rotta solo dal palpitare flebile di due lampade a olio. Siamo forse in una camera ardente? Con una trovata geniale, il primo intervento fonico-sonoro della coppia è un rigurgito (vero!) di acqua. Ed ecco che cominciano a parlare, come in un lungo, macabro, allucinato flash back che dà quasi l’idea di un rito della ripetitività. Dapprima sono immobili, poi si scuotono, strisciano, rotolano sopra il tavolo, un movimento sussultorio intervallato a pause di letargia. Sono spettri che tornano da un indistinto aldilà letterario per parlare soltanto a noi, qui riuniti per loro. Le mense-catafalchi diventano ben presto tavoli anatomici dell’interiorità dei protagonisti, i veri padroni di questo spazio cupo e claustrofobico, in cui si muovono sfiorandoci, talvolta anzi si siedono accanto a noi, in una contiguità inedita. Cambia pertanto anche il nostro ruolo: non siamo più semplici spettatori di teatro, bensì testimoni, convocati a partecipare a una veglia funebre e ascoltatori complici di una macabra confessione.
La vicenda: un triangolo bloccato
Lo spettacolo nasce dalla collaborazione di due attori eccezionali, Federica Fracassi e Luca Micheletto, che firma anche la regia. Per il testo adottano la riduzione del grande Massimo Castri (1943-2013), un’operazione all’insegna dell’asciuttezza, che ha trent’anni e non li dimostra: dei sei personaggi ibseniani restano solo l’ex-pastore Rosmer e Rebekka.
La vicenda è quella di un triangolo amoroso bloccato nella sua aspirazione alla completezza, schiacciato dall’incombere della morte. Beata, moglie di Rosmer, si è uccisa gettandosi nella gora del mulino. Onnipresente in absentia, è identificata qui nella fotografia illuminata da un fascio di luce simbolico, perché è un faro, o meglio un vettore di senso, attorno al quale ruotano le vicende dei protagonisti.
E poi c’è Rebekka, una donna del Nord tempestoso, con cui Rosmer ha instaurato una profonda amicizia spirituale, che dopo la morte tragica della moglie è pronta a sbocciare in sentimento d’amore. Egli tuttavia è annichilito dal dubbio di aver provocato in qualche modo il suicidio di Beata, finché Rebekka, per spronarlo a una maturazione decisionale e alleggerirgli la coscienza, rivela: «Tu non potevi crescere libero se non nella chiara luce del sole. E invece languivi nelle tenebre di un simile matrimonio». È stata quindi lei, la donna del Nord di nebbie e tempeste, animata da un desiderio selvaggio e amorale, a spingere la moglie al suicidio, con l’intenzione di spronare Rosmer a realizzarsi in una vita attiva, creando un’umanità di spiriti nobili e felici.
Ma ogni slancio si congela: l’idealismo incerto di lui crolla per fragilità di carattere, la spinta decisionale di lei perde vigore nell’apatia senza gioia di casa Rosmer. Intanto l’ossessione della colpa continua ad aleggiare, insieme a un’incolmabile nostalgia per l’innocenza perduta: il passato torna a vanificare il presente, fino all’appuntamento con la morte.
Specchi e confessioni
Fra i tanti pregi dello spettacolo è l’attenzione sulla specularità dei due personaggi. In uno straniante scambio delle parti, la Fracassi recita le battute di Rosmer, e Micheletti quelle di Rebekka, un’alternanza inedita che rivela nuove zone d’ombra dei caratteri, lacerati fra debolezze, slanci bloccati, inerzia, paura della felicità. Entrambi sono vittime, due facce dello stesso dilemma, che si sintetizza nella domanda: «sei tu che segui me o io che seguo te?»
Si esce turbati da questo “gioco della confessione”. L’amore qui non eleva gli animi; al contrario, sprofonda nella tortura del dubbio e nell’annullamento di sé. Una superba prova d’attori, osservabili da vicino nel ventaglio emotivo che si disegna sui loro volti. Splendida la Fracassi, nella alternanza tonale di fragilità, sgomento e decisione; versatile ed efficace Micheletti, con la voce modulata nelle sfumature del tormento interiore ma anche dell’ironia.
Da non perdere.
Rosmersholm
di Henrik Ibsen
riduzione di Massimo Castri
regia di Luca Micheletti
con Federica Fracassi e Luca Micheletti
fino al 11 febbraio 2018, Teatro Franco Parenti, Milano