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Sulla libertà

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4 minuti di lettura

Perché non pensare
la libertà come
un esercizio di strategia?


Oltre ad esser presente nella coscienza di ognuno di noi, una certa immagine di ciò che chiamiamo “libertà” ci è stata tramandata da buona parte del pensiero (francese) del Novecento. L’abbiamo letta tutti, La nausea, alla ricerca di una voce che corrispondesse alle nostre inquietudini, che ci fornisse almeno la consapevolezza di un destino condiviso. Jean-Paul Sartre pensava così, difatti: non solo che l’uomo è, esso stesso, libertà – ma che proprio la libertà rappresenti la sua condanna. L’essenza di questa strana cosa che ci ritroviamo ad essere, l’uomo, non è, come per tutto il resto, già determinata, ma deriva dalle scelte che compiamo su di essa. L’albero dal seme diventerà albero; esso è già albero nel seme piantato a terra, non ancora, certo, ma in un futuro prestabilito sin nelle sue fibre più intime ciò dovrà accadere. L’uomo no. L’uomo è plastes sui, maestro e fabbricatore di sé, e come il vasaio asseconda il tornio dando la forma che più desidera alla terracotta in lavorazione, così l’uomo sceglie che foggia donare alla sua vita. Egli cade sempre dietro se stesso.

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Pesantezza. Responsabilità. Angoscia. È chiaro che la deriva del pensiero sartriano non possa che tradursi in una visione tragica della vita. L’uomo danza sul nulla, ed ogni suo passo nullifica ciò che altrimenti la vita gli propone. Ogni istante, ogni secondo, ogni gesto in direzione del futuro ne annulla infiniti altri, la cui serie, se guardata dalla prospettiva del suo termine, diviene una minuscola alternativa nel tracciato dell’universo. Che noi, tuttavia, abbiamo scelto, con assoluta libertà, con assoluto potere sull’esterno. Fare ciò che si vuole: condurre alla vittoria l’esercito di Napoleone o ridursi alla vita dell’ubriacone da marciapiede non sono che opzioni all’interno di un ventaglio infinito, ma, perciò, equivalente.

Ma a ben vedere, questa stessa concezione della libertà, così affascinante ed insieme spaventevole, non può che rovesciarsi nel suo contrario. In fondo, è la conclusione dello stesso Sartre: trattandosi di una condanna, quella libertà che pur ci assicura alla nostra essenza, insieme ci rende schiavi di essa. Come scriveva Maurice Merleau-Ponty nell’ultimo capitolo della sua Fenomenologia della percezione, dedicato proprio al problema della libertà,

«se la libertà è eguale in tutte le nostre azioni e persino nelle nostre passioni, se è senza misura comune con la nostra condotta, se lo schiavo testimonia altrettanta libertà vivendo nel timore che spezzando le catene, allora nessuna azione libera è possibile, la libertà è al di qua di tutte le azioni, in nessun caso si potrà dichiarare: “Qui appare la libertà”, poiché, per essere rivelabile, l’azione libera dovrebbe staccarsi su uno sfondo di vita che non fosse libero o lo fosse meno».

È vero. La libertà così concepita, come potenza del sì e del no, come capacità per l’uomo di fare tutto e il contrario di tutto, di rendersi bestia o dio – ebbene, non è altro che «il dono che ci è stato elargito di non avere nessun dono, quella natura della coscienza che consiste nel non avere natura». Dov’è la nostra libertà se non vi è nulla che la ostacoli? Dov’è la libertà quando tutto è in nostro potere? è come se col semplice schiocco delle dita potessimo soddisfare qualsiasi nostro desiderio. Rimarrebbe allora spazio per il desiderio vero e proprio?

Lo stesso vale per la libertà. La libertà, così sostiene Merleau-Ponty, è sempre in situazione, sempre incarnata, intrecciata, derivata dalle numerose, anzi, infinite contingenze che compongono il reale. La libertà non è nullificante, ma s’innesta sullo sfondo di una storia, che perpetua e continua allo stesso tempo. E questa storia siamo prima di tutto noi stessi, con il nostro corpo, le nostre mani, i nostri volti. Noi sentiamo che la nostra carne c’impedisce di fare ciò che vogliamo, sentiamo che esiste un limite fisico all’azione, e che solo guardando ad esso possiamo dar forma alla nostra identità.

Ma non finisce qui. Il discorso si prolunga, e quel limite fecondo e insieme fonte della nostra libertà esperito nella carne che abitiamo, si alza di livello e complessifica nel passaggio alla società. È l’altro – gli altri – lo specchio attraverso il quale prende forma la nostra libertà, perché commisurandosi su di esso noi possiamo fattualmente determinarci. Lo sguardo altrui non si può annullare per mezzo di una scelta. L’eremita che decide di isolarsi abbandonando l’umanità è compreso in questo ragionamento, e anzi, ne è la riprova. Chi sceglie di rinunciare alla vita sociale lo fa in contrapposizione ad essa, negandola. Ma è proprio grazie a quest’ostacolo che la scelta operata diventa reale. Senza di essa sarebbe come sfondare una porta aperta, gettare dell’acqua nel mare, spegnere un incendio già spento.

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Questo significa che la libertà, lungi dall’essere potere assoluto sulle cose, è un dialogo con esse. La libertà si commisura sui limiti che la vincolano, come quando saliamo la scala, gradino dopo gradino, in virtù di una forza che tende a riportarci a terra. Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Semplice: che l’ostacolo (il corpo, gli altri, la società) non è ciò che ci annulla o trattiene, ma quanto di più concreto possa dare sostanza alla libertà.

La parola “strategia”, così lontana dal nostro pensiero, ma vicina a quello orientale, esprime esattamente quest’idea. Lo stratega padroneggia l’arte della decisione. Egli non impone a forza un modello prestabilito sulla realtà delle cose, ma asseconda la situazione, sfruttandone il potenziale. Lascia che gli eventi declinino in direzione di ciò che intende fare. La guerra, militare o d’amore che sia, funziona esattamente così: ci si muove guardando costantemente all’evoluzione dei fatti e, di volta in volta, come in un gioco, si decide che mossa compiere.

E allora perché non pensare la libertà come un esercizio di strategia? Tenere l’occhio rivolto a ciò che la situazione ci offre e sfruttarlo. Non forzarlo, altrimenti, come la serratura che la chiave non apre, si spezza – ma cogliere nelle sue venature ciò che di propizio può favorire l’azione. Lasciare che i vincoli, esterni ed interni, fungano da appoggio per le nostre scelte, e farne il potenziale che possa, davvero, renderci liberi.


In copertina: Artwork by Tatanka Journal
© Riproduzione riservata

 


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.