Lo stupro di Palermo: un case-study sulla rape-culture
Lo stupro di gruppo avvenuto a Palermo lo scorso luglio colpisce per brutalità, ma nella sostanza non sorprende. I casi di aggressione sessuale e di violenza di genere sono all’ordine del giorno nei bollettini di cronaca, al punto che non fanno notizia. Anzi, ce si li aspetta. L’esposizione reiterata ad uno stesso fenomeno genera assuefazione. In questo caso, è come se l’eventualità di essere aggredita, se non stuprata nel caso peggiore – si parla al femminile perché ciò che interessa in questa sede è riflettere sulla violenza di genere compiuta da uomini su donne-, sia sempre più concreta, qualcosa da mettere in preventivo e quindi da prevenire il più possibile. Niente alcol e niente vestiti succinti. Fino all’assurdo per cui la responsabilità ricade sulla vittima e non sull’aggressore.
Se non riescono, quindi, a sorprendere i fatti di Palermo, almeno ci dicono qualcosa sulla cultura dello stupro, o rape-culture, di cui la società è co-partecipe e co-attrice.
Dentro la rape-culture: un filone di ricerca dei gender-studies
Utilizzata per lo più nell’ambito degli studi di genere, l’espressione “rape-culture“, traducibile con “cultura dello stupro”, descrive una cultura che normalizza e incoraggia la violenza e gli abusi di genere. Per la rape-culture, la violenza è sexy e la sessualità è violenta, come spiegato tempo addietro da Michela Murgia su Repubblica. Il tema affrontato per la prima volta, in ambito cinematografico, musicale ed artistico, dalla produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus in un documentario degli anni settanta – Rape Culture – è di estrema attualità nella società contemporanea. Ne sono parte integrante l’oggettivazione del corpo femminile, l’utilizzo di un linguaggio misogino, la stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali femminili distanti dai canoni tradizionali, e non da ultimo la colpevolizzazione della vittima. L’obiettivo ricorrente è delegittimare e ridimensionare, quanto non negare, la violenza di genere.
Si parla di cultura perché l’area di influenza della rape-culture è molto più estesa di quando non si pensi, il che è prerogativa della cultura, e di ciò che è culturale. C’è anche se non si vede, con i suoi stereotipi, i suoi preconcetti, e i suoi rituali. In una certa misura, ne siamo tutti portatori quando giustifichiamo o banalizziamo una violenza, quando ci abituiamo a vivere nella paura, o ne subiamo le conseguenze. Senza andare troppo lontano, esempi di rape-culture li ritroviamo anche in alcune sentenze della Magistratura per cui una palpata di durata inferiore ai 10 secondi non è considerata reato.
Le sue radici sono culturali in senso proprio. Sedimentate nel lungo periodo, naturalizzate, e difficilmente scalfibili, non possono essere sradicate nel breve termine. I cambiamenti culturali -si sa- hanno gestazione lunga.
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#YesAllWomen: una manifestazione di solidarietà che fa riflettere
Negli ultimi giorni, in risposta allo stupro di gruppo di Palermo, la scrittrice e divulgatrice femminista Carolina Capria ha rilanciato l’hashtag #YesAllWomen, diventato virale per la prima volta nel 2014 in seguito al massacro di Isla Vista. Aprendo una chatbox pubblica e ripostando i messaggi ricevuti, la scrittrice ha raccolto in poche ore centinaia di messaggi da donne che raccontano di abusi e violenze di vario genere. Alla base dell’iniziativa l’idea espressa chiaramente da Capria per cui:
Io non ho mai conosciuto una donna che non avesse subito molestie. Nemmeno una. Al limite ho conosciuto donne che chiamavano in un altro modo le molestie ricevute – finanche complimenti o goliardate. Ma nessuna – nessuna – che non avesse fatto esperienza della molestia (o peggio).
Carolina Capria
Si ritorna al punto di partenza. La pervasività della rape-culture, che appare molto più diffusa di quanto non sembri, sia tra gli uomini che minimizzano o esercitano violenza, che tra le donne, che non mostrano solidarietà e colpevolizzano la vittima.
Lo stupro di Palermo alla prova dei social: una serie di considerazioni
Se la campagna #YesAllWomen nasce da un utilizzo virtuoso dei social media, i fatti di Palermo ci dicono tutt’altro sullo “stato di salute” della rete. Alla prova dei social, ciò che emerge sono gli aspetti più conturbanti del dark-web, sia in senso figurato che concreto. Nella notte a cavallo tra 7 e 8 luglio 2023, i 7 stupratori hanno ripreso con lo smartphone le violenze reiterate sulla giovane diciannovenne, per poi divulgare il contenuto tra amici e conoscenti. È solo di pochi giorni fa la notizia della chiusura di alcuni canali Telegram sfruttati da diversi utenti per la fruizione del filmino. Nel frattempo su TikTok continuano ad essere attivati dei profili fake degli aggressori, mentre i video postati sulla piattaforma dalla vittima prima dell’accaduto vengono utilizzati da diversi haters per colpevolizzarla, secondo i dettami della rape-culture. Tre giorni fa lo sfogo su Instagram della diciannovenne contro i suoi aguzzini social, «Sinceramente sono stanca di essere educata quindi ve lo dico in francese, mi avete rotto con cose del tipo: ‘Ah ma fa i video su tik tok con delle canzoni oscene’, ‘È normale che poi le succede questo’, oppure ‘Ma certo per come si veste’».
Lo stupro di Palermo è diventato un contenuto social e ne segue le regole retoriche, controindicazioni incluse. Agglutinazione di commenti, hate speech, attacchi ad personam, diffusione di contenuti inadeguati, ecc.
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Tra prevenzione e certezza della pena
Esiste una via d’uscita dalla rape-culture? Quali indicazioni si possono trarre dai fatti di Palermo?
Prevenzione e certezza della pena: è necessario agire in entrambe le direzioni per sradicare le fondamenta della rape-culture e contrarre l’incidenza dei casi di aggressione sessuale. A livello preventivo, occorre investire sull’educazione sessuale, affettiva e relazionale dei giovanissimi a partire dal mondo della scuola. ll sesso non è un atto meramente fisico, ma porta con sé aspetti evidentemente relazionali ed affettivi, che non possono essere trascurati. L’atto sessuale in quanto atto relazionale deve fondarsi sulla consapevolezza, il rispetto e la fiducia di entrambe le parti.
In Italia, dove l’educazione sessuale non è ancora obbligatoria, finalmente si è deciso di introdurre nelle scuole superiori un modulo di educazione sulla violenza di genere e sul consenso, tenuto in un’ottica di peer-education dagli stessi studenti. Un modulo che si spera tenga conto della sessualità a 360 gradi, nelle sue diverse manifestazioni, tra cui il porno web, accessibile anche ai minori. L’accelerata del ministero dell’Istruzione dopo i fatti di Palermo e Caivano è forse un primo passo avanti, dopo anni di stasi, sempre che alle dichiarazioni di circostanza seguano i fatti.
In termini di certezza ed entità della pena, la legislazione mostra diverse falle interne. La dilatazione dei tempi di denuncia per la vittima – si veda la legge Codice-Rosso – non è evidentemente sufficiente. Servono forse tempi più stringenti per i processi, e pene certe che possano fungere da deterrente, perché i tempi dell’educazione sono lenti, mentre l’emergenza è qui ed ora.
Prospettive future
Al di là delle uscite retoriche sulla castrazione chimica, è evidente che il trauma dello stupro resta per sempre. Altrettanto evidente è che coloro che compiono un simile reato non possono essere messi nelle condizioni di arrecare ulteriori danni permanenti ai singoli ed alla collettività. Servirebbe una riflessione approfondita, che non cada nell’ottica retributivista ben descritta da M. Foucault in Sorvegliare e Punire.
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Sarebbe necessario educare al rispetto di sé e del prossimo nella vita di tutti giorni, sia on-line che e off-line. Lo stupro di Palermo ci dice che serve un cambiamento di paradigma. ln famiglia, a scuola, sul posto di lavoro, e in tutti i luoghi della cosiddetta “società civile”.
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