Mentre il conflitto tra Israele e Hamas non accenna a mostrare una fine o quantomeno una tregua, il territorio palestinese continua a essere sotto attacco e i suoi abitanti costretti a vivere in condizioni disumane. In una situazione tanto complessa, sono molte le voci che si stanno sollevando per esprimere la propria opinione a riguardo. Quello che si sta vedendo ha portato alla presa di posizione anche da parte di rappresentanti di ambiti apparentemente estranei, come quello dell’arte, che tuttavia è sempre stata, nella storia, coinvolta in questioni sociali, anche molto attuali e complesse. Queste prese di posizione non sono state senza conseguenze e hanno portato, solo per citare alcuni casi, al licenziamento del caporedattore della rivista Artforum, a seguito del pubblico schieramento a favore alla liberazione della Palestina, e alle dimissioni del comitato di selezione della manifestazione internazionale d’arte contemporanea Documenta, che si svolge ogni cinque anni a Kassel (Germania). In Italia, poco dopo l’inizio di dicembre, oltre duemila esponenti del mondo dell’arte, tra cui artisti, curatori, architetti, musicisti, studiosi, hanno firmato la Lettera aperta per una presa di posizione rispetto al genocidio in Palestina.
Numerosi, poi, sono gli interventi artistici che direttamente esprimono un parere circa la situazione e cercano di scuotere le coscienze di tutto il mondo, anche di coloro che sono lontani dal conflitto. Conflitto che, però, come tutti ben sappiamo ormai, non è frutto di una ribellione o un attacco improvviso, ma di una condizione di avversione reciproca radicata in profondità in quel territorio e nella sua popolazione. È anche per questo che alcune delle opere riguardanti la situazione tra Israele e Palestina risalgono già ai primi anni Duemila. Attraverso l’analisi di tre di questi interventi, realizzati dagli street artist Banksy, JR e Harry Greb, cerchiamo di presentare punti di vista nuovi e diversi su una questione difficile.