Tanto per cambiare, nel 1980 il mondo poggiava su delicati equilibri. In Italia il lunghissimo decennio che oggi chiamiamo Anni di piombo mieteva vittime con inquietante regolarità, pur manifestando alcuni cenni di raffreddamento. La Nazione si barcamenava tra l’inevitabile appartenenza al blocco NATO e la necessità di mantenere buoni rapporti con Muammar Gheddafi, uno dei principali nemici del Patto Atlantico, affinché questi mantenesse aperti i rubinetti del petrolio e degli investimenti. Il colonnello libico, al potere dal 1969, era un ostacolo per le politiche occidentali in Africa, alle quali rispondeva, con il sostegno da parte dei suoi servizi segreti, a sovversivi e terroristi europei.
In questo clima il 27 giugno 1980, poco prima delle 21.00, un aereo Douglas DC-9 della compagnia Itavia era in volo da quaranta minuti sulla rotta Bologna-Palermo, quasi al centro del Tirreno. A bordo c’erano settantasette passeggeri e quattro esperti membri dell’equipaggio. Dopo aver evitato una turbolenza, iniziata la discesa per l’atterraggio, l’aereo sparì dai radar senza alcun preavviso. Le operazioni di ricerca cominciarono un’ora dopo, finché all’alba furono identificati i primi rottami e cadaveri in una pozza di carburante a nord dell’isola di Ustica: il DC-9 era precipitato.
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Fin da subito alcuni aspetti della vicenda apparvero poco limpidi. Il giornalista d’inchiesta Andrea Purgatori – oggi anche volto di La7, allora al Corriere della Sera – ricevette quella stessa notte la telefonata di un controllore di volo dell’aeroporto di Ciampino che gli rivelava un fatto agghiacciante: l’aereo di cui si iniziavano le ricerche in quei momenti era stato abbattuto da un missile. Prima di pubblicare un primo articolo a riguardo, Purgatori ascoltò i suoi numerosi contatti nell’ambiente dell’aeronautica civile e militare e aspettò di leggere le prime ipotesi della commissione d’inchiesta guidata da Carlo Luzzatti; queste si concentravano su possibili cedimenti strutturali, escludendo responsabilità umane o fattori esterni. Ma il paragone con i recenti casi ipoteticamente simili che vedevano coinvolto lo stesso modello di aereo dimostrò che i piloti avevano avuto sempre il tempo di riportarlo a terra in sicurezza dopo la sparizione dai radar. Inoltre, apparve subito chiaro che i detriti riemersi erano distribuiti su un’area troppo ampia ed erano di conformazione troppo diversa tra loro perché l’aereo si fosse disintegrato al momento dell’impatto con l’acqua: il DC-9 era evidentemente esploso in volo.
La teoria di Purgatori e delle sue fonti appariva sempre meno folle: il giornalista sosteneva infatti che il DC-9 fosse stato abbattuto da aerei militari durante un combattimento che vedeva coinvolti due caccia francesi e uno libico. All’esame dei resoconti radar – nonostante alcuni inconvenienti sospetti, come un taglio netto nelle registrazioni del centro di controllo di Marsala proprio lì dove ci sarebbero dovute essere le informazioni sui momenti dell’incidente, o la totale assenza di trascrizioni pervenute dal centro di Siracusa – lo spazio aereo tirrenico risultava effettivamente molto affollato la sera del disastro. L’inchiesta ufficiale proseguiva comunque in tutt’altra direzione: l’8 luglio il Ministro dei Trasporti Formica escludeva in Senato la collisione del DC-9 con altri oggetti e la presenza di altri velivoli nelle vicinanze.
Dieci giorni dopo sui monti della Calabria veniva ritrovato un caccia libico precipitato, che alimentò le teorie su uno scontro nei cieli, ma una commissione italo-libica ne attribuì le cause all’esaurimento del carburante e allo svenimento del pilota.
A novembre un tecnico statunitense (gli USA erano coinvolti in quanto Paese costruttore dell’aereo) prese parte alle indagini sulla strage di Ustica, e davanti alle tracce radar della sera dell’incidente aderì alla teoria del missile, sparato da un caccia per colpirne un altro che stava usando il DC-9 come scudo.
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Si arrivò senza risposte dalle istituzioni al marzo 1982, quando la commissione ministeriale incaricata dell’indagine escluse il cedimento strutturale, avallando l’ipotesi di un’esplosione causata da un missile o da una bomba collocata a bordo dell’aereo. Scontrandosi con il continuo scarico di responsabilità da parte dell’Aeronautica le indagini continuarono a concentrarsi sui radar. Nel 1985 vennero sperimentalmente ricreate le condizioni dell’incidente, simulando la presenza di un caccia vicino al DC-9, e i tecnici notarono che le tracce radar combaciavano: quella notte del 1980 c’era davvero un altro velivolo accanto a quello di Itavia. E quando cinque anni dopo venne ripescata la prima scatola nera dal fondo del mare si poterono ascoltare le ultime registrazioni dalla cabina: prima che si interrompessero all’improvviso si sentiva uno dei due piloti dire «Guar..». La ripulitura definitiva del suono nel 2020 permise di completare la frase: «Guarda, cos’è…?».
Nel 1988 Paolo Borsellino, allora procuratore capo di Marsala, riuscì a riprendere in mano il caso: nel 1980 le sue ripetute richieste di consultare i registri del centro di controllo di Marsala riguardanti la notte di Ustica avevano ricevuto solo rifiuti e addirittura la consegna di un falso, prima che l’indagine gli venisse tolta spostandola a Roma. Quando ebbe finalmente accesso alla lista dei presenti interrogò i militari in servizio la sera dell’incidente, i quali concordarono su tutte le anomalie (le altre presenze nel cielo e la sparizione dell’aereo); ma ogni loro tentativo di contatto con gli altri centri radar del Tirreno meridionale non aveva ricevuto risposta. Nello stesso anno nasceva l’Associazione dei parenti delle vittime, che fino a quel momento si erano riuniti intorno a Purgatori.
In quel momento godeva di grande popolarità una teoria che provava a spiegare il senso dell’eventuale incidente missilistico: qualcuno aveva notato che l’aereo personale di Gheddafi era in volo quella notte maledetta, e che due caccia statunitensi avevano provato ad abbatterlo confondendolo con il DC-9. Lo stesso colonnello caldeggiò la teoria – che naturalmente metteva in una posizione scomoda il blocco NATO –, sostenendo che in quei giorni il suo aereo aveva volato in Europa per delle riparazioni, ma senza che lui fosse a bordo.
La storia continuò tra indagini e svolte, cambi di posizione da parte di alcuni personaggi-chiave e conferme di alcune teorie iniziali. Gli anni Novanta furono utili solo a confermare che qualcosa aveva distrutto improvvisamente l’aereo in volo, ma nulla più. Nel 1992 la Commissione stragi approvò una relazione in cui si denunciavano piuttosto genericamente colpe e mancanze dei poteri pubblici e militari. Alla fine del secolo, forse un bagliore: nel 1999 il giudice istruttore del caso, Rosario Priore, pubblicò il celebre documento in cui definiva la strage «un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata». Chiedeva il rinvio a giudizio di nove personaggi (sei generali tra aeronautica e controspionaggio oltre a tre alti funzionari), di cui quattro con l’accusa di attentato agli organi costituzionali e alto tradimento, e gli altri cinque per falsa testimonianza. Ma tra il 2004 e il 2007, tra assoluzioni e prescrizioni, ne uscirono tutti quasi puliti. La responsabilità si spostò acrobaticamente sui ministeri della Difesa e dei Trasporti, condannati nel 2010 a risarcire gli eredi delle vittime. E di responsabili con un nome e un cognome ancora nessuno.
Non è questa la sede per prendere posizioni sulla strage di Ustica, che spettano a chi ha investigato coscienziosamente e a chi continuerà a farlo. La vicenda è ancora più complessa di quanto esposto qui e collegata ad altre storie altrettanto grandi da fili sottili o ingombranti a seconda della lettura (come la strage di Bologna e il disastro aereo di Ramstein). Ma è evidente, quando non addirittura provato, che molti dei vuoti delle indagini siano serviti a coprire la responsabilità di enti e personalità di rilievo, primi fra tutti l’Aeronautica militare e i suoi generali. I passeggeri del DC-9 ebbero la sfortuna di trovarsi schiacciati tra gli ingranaggi più perversi delle logiche nazionali ed internazionali del momento storico in cui vissero. La fine della fase più acuta del terrorismo italiano, che si confrontò in ogni momento con la situazione internazionale, significò pochissimo per chi continuò ad avere a che fare con certe istituzioni dall’interno, le stesse che facevano la morale ai cittadini e nel frattempo li fomentavano ad ammazzarsi a vicenda, le stesse dei militari invasati che tentavano di trascinare i ragazzini di leva nelle loro paranoie, tutto contro un nemico che non esisteva più da tempo e che in certi casi non era mai neanche esistito. Ma che dire, il romanticismo della Prima Repubblica sta proprio in queste storie noir irrisolte e contorte. Peccato che ci piacciano talmente tanto da essercele trascinate dietro per decenni, dimenticandoci pure di cercare un responsabile. E quando non ci bastano, ne creiamo pure di nuove.
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