L’ondata di rabbia e di riflessioni scatenata dal femminicidio di Giulia Cecchettin sembra senza precedenti, forse per l’età della vittima, forse per la reazione mostrata pubblicamente dalla sorella Elena Cecchettin che ha rifiutato di piegarsi ad una forma di lutto che la società patriarcale si aspettava da lei, subendone le patetiche conseguenze mediatiche e politiche, con senatori più preoccupati a scherzare sulla sua immagine che a commentare il messaggio fondamentale che stava provando a trasmettere.
Forse perché già immaginavano che fine avesse fatto Giulia Cecchettin appena abbiamo sentito la notizia della sua scomparsa e stavolta anche le menti più viscide non sono riuscite a trovare qualcosa da rimproverarle.
Sui social circolano ancora, a più di una settimana del ritrovamento del cadavere, contenuti di un’efficacia raramente vista prima, slogan efficaci non solo per chi è abituato a maneggiare il linguaggio della lotta femminista.
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Ha ripreso a circolare l’immagine della piramide della violenza di genere, in cui è rappresentato con efficacia come il femminicidio e lo stupro siano solo le estreme conseguenze di una cultura del predominio maschile sostenuta anche da pratiche considerate più che innocenti ed innocue dalla maggioranza: tra le fondamenta della piramide vediamo l’utilizzo di un linguaggio offensivo, l’oggettificazione, le battute da spogliatoio e così via.
Diventa sempre più evidente la pervasività della violenza sulle donne e l’efficacia di una narrazione patriarcale che dura da millenni che deve essere affrontata dagli storici, se non altro perché è il loro mestiere.
Qualunque uomo che in questo momento lavori con la storia, che la studi, la insegni, la divulghi, la scriva, o ne sia semplicemente appassionato, ha il dovere di porsi criticamente davanti alla sua disciplina e chiedersi: qual è stato finora il mio ruolo in questa narrazione? Nel modo in cui coltivo questa materia, mi rendo complice dello stato di salute del patriarcato?
Dato che non esistono uomini che non abbiano in alcun modo nella loro vita contribuito alla costruzione della piramide di cui sopra, dato che siamo stati tutti complici di questa violenza nella nostra vita personale, per quanto attenti e attivisti possiamo essere ora, è il caso di chiederci se lo siamo stati anche come storici oltre che come uomini.
Mentre opinionisti, giornalisti, influencer e personaggi pubblici riempiono i salottini di frasi fatte (e tra loro sbuca qualche attivista che prova a portare sostanza, con scarso successo perché c’è sempre un uomo che le urla sopra), in questi giorni c’è un silenzio imbarazzante da parte dei personaggi del mondo della cultura su un argomento così rovente e che richiede di prendere una posizione netta. Ma tanto per cambiare sembra che anche nei rarissimi casi in cui si espongono su tematiche di attualità, rimangano ai margini del dibattito.
La storia è una narrazione e lo è sempre stata per quanto rigoroso sia diventato il suo metodo. Una narrazione non solo di cose affascinanti ma di violenza e dominazione per la maggior parte. Ammettiamo che la storiografia ha sempre trascurato molte cose e ne ha normalizzate delle altre, a partire dal ruolo di assoluto secondo piano per le donne perché tanto sono state là dietro per millenni quindi le abbiamo potute mettere nell’anticamera del cervello.
«Non è colpa nostra se le cose stavano così», si potrebbe ribattere. Ma sta a noi, ora, rilevare delle mancanze e fare il possibile per colmarle, se vogliamo essere alleati di una lotta e non nemici (come siamo stati dall’inizio dei tempi). Perché limitare lo spazio femminile nei libri di storia al classico paragrafo in cui si parla della condizione della donna nel Medioevo, ad esempio? Perché la moralità vittoriana colpiva in modo così diretto le donne? Perché si parla di una presunta emancipazione delle donne spartane ed etrusche, e quali furono le cause di maggiori o minori parità tra i generi? Abbiamo trascurato con regolarità simili quesiti perché finora dire parole come patriarcato o femminismo è stato considerato imprudente e di parte e si è preferito rilevare una situazione senza porsi troppi problemi. Ma se non si schiera chi ha gli strumenti per farlo con solidità, allora a chi dovremmo prestare ascolto?
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Nell’ultimo secolo la storiografia ha già affrontato una svolta importante, a partire dalla rivoluzione tentata e in parte riuscita della nouvelle histoire di Marc Bloch e Lucien Febvre: grazie agli storici francesi e ai loro successori, la storia è diventata qualcosa di più rispetto alle liste dei re, delle battaglie e delle grandi civiltà, senza riuscire però a cessare di essere storia di uomini scritta da uomini, forse anche perché mancava un terreno fertile nelle società. La storiografia francese degli anni Venti e Trenta cominciò a guardare agli ultimi e ai dimenticati più che a quelli che comandavano, portando la storia nel campo degli studi sociali e liberandola dalla pretesa di essere una scienza esatta. Lo fecero con ottimi propositi, in un contesto non sempre facile, ed ebbero un parziale successo. Forse è il caso di tornare alle parti mancate di quella rivoluzione, per colmare il vuoto con le vere dimenticate della storia.
Senza neanche troppi sforzi ci si può rendere conto che nonostante gli sforzi di Marc Bloch e compagni, la grande storia è rimasta una materia inventata dagli uomini che si è dimenticata a lungo di parlare di donne. Un lungo susseguirsi di violenza e dominazione maschile, in cui le donne erano chiamate in causa solo come colpevoli, innocui modelli di virtù, capri espiatori o ammalianti tentatrici (Pandora, Elena di Troia, Cornelia, Cleopatra, Ermengarda, ecc…) e in cui alle donne è sempre stato insegnato a temere gli uomini, a stare zitte e subire le tormente della storia mentre gli uomini la cambiavano e si avvicendavano sui troni. Il consenso è stato dato per scontato per secoli, così come l’inferiorità femminile davanti alla volontà dell’uomo. Perché i libri di storia non dicono mai nulla a riguardo?
Limitarsi a raccogliere le storie straordinarie di femministe o di donne emancipate ante litteram è un’iniziativa che vale quanto i minuti di silenzio proposti dalle istituzioni come panacea per tutti i mali del patriarcato, se non si inserisce in un’analisi sui motivi per cui ricordiamo solo una manciata di regine d’Egitto (di cui forse una sola come regina effettiva e non consorte) a fronte di 170 faraoni uomini. Sarebbe poi il caso di riflettere su come la fama di queste poche donne passate alla storia sia stata spesso infangata dalle dicerie, sia dei contemporanei sia degli uomini che vennero dopo.
È ora di raccontare che ogni storia è stata una storia di predominio maschile, da inserire in una cornice che si chiama patriarcato nata quando siamo diventati bravi a coltivare la terra e ad ottenere una produzione superiore alla sussistenza. Da quel momento abbiamo deciso che il dovere delle donne era darci qualcuno a cui passare le nostre ricchezze e i nostri privilegi mentre noi giocavamo a fare i guerrieri e i capi. Noi, gli uomini.
E non c’è dubbio che associazioni ed università si riempiranno di corsi sul femminismo o si sveglieranno per attivare corsi di storia di genere se non l’hanno ancora fatto. Ma saranno narrazioni che non cambieranno se non cambierà il modo di portarla avanti.
È ora di distruggere, nemmeno più di decostruire. C’è da prendere in blocco quel che si è fatto finora e ricominciare da capo a scriverlo. Ma è naturale che la vecchia guardia (la stessa che parla dietro alle donne che provano a fare carriera nell’ambito e le accusa di aver raggiunto certe posizioni solo grazie agli intrallazzi con gli altolocati capi dipartimento) sarà resistente, anche a causa di tutti i giovani complici che ha in un ambiente che accoglie spesso dei bacini di conservatorismo becero. Rimarremo complici anche noi finché saremo tra gli autori di una narrazione che omette per scelta.
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