Il concreto e l’astratto
Sin dalle scuole elementari l’analisi grammaticale, forte di una chiave di lettura del reale che si serve didatticamente delle opposizioni – nutrita forse dalla convinzione che per contrasto si possa capire meglio qualcosa?- divide i nomi tra concreti e astratti.
Esemplificando i primi come oggetti e i secondi come sentimenti, pensieri e idee si sottintende quasi una gerarchia intellettuale che più che innalzare, affossa nella convinzione che l’astratto sia da preferire al concreto, in virtù di un’assolutezza garante di universalità.
Le parole risentono di questo retaggio grammaticale e con l’avanzare dell’età e degli studi il concetto regna sovrano, ammantato di una regalità tutta propria, fondata su un presunto diritto di essere tale perché scevra dalla banalità della cosa tangibile, immediatamente afferrabile, rispetto alla comprensione intellettuale.
Scegliere il concreto
Quando le persone, i nomi e le cose diventano concetti, per quanto li si possa capire in generale, perdono la singolarità che li ha resi vivi e sono destinati a morire.
Quando le persone, i nomi e le cose diventano concetti? Così si interroga, senza retorica, nella verità palpabile di un’esperienza vissuta ancora oggi, l’attore e regista Angelo Campolo nello spettacolo Stay Hungry – Indagine di un affamato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 18 al 20 giugno.
Il racconto autobiografico si serve della concretezza dei laboratori teatrali realizzati dal 2015 ad oggi con ragazzi migranti senza diventare servo della capacità scenica e attoriale che mira a coinvolgere il pubblico con la mera affabulazione, ma potenziando e approfondendo le singole con intima sincerità.
Un teatro sociale
Se la tematica trattata in Stay Hungry – Indagine di un affamato è interessante perché effettivamente interessa, è parte della realtà, le parole non si sciolgono mai dal vincolo profondo che le tiene ancorate alla terra da cui provengono per raggiungere livelli superiori destinati alla pura elucubrazione.
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La condizione dei migranti è la storia di un attore e personaggio che coesistono nella consapevolezza di un teatro che sia sociale, ovvero per la comunità non come fine, come obiettivo ultimo da raggiungere, ma come stato di cose.
Il teatro sociale di Campolo è sin da subito nella comunità di cui parla e a cui si rivolge nelle vesti di pubblico che assiste alla messa in scena e ha la possibilità di confrontarsi con le ragioni e le finalità di chi lo propone.
Stare nel teatro
La peculiarità dell’arte teatrale di finzione scenica che permetta fisiologicamente l’immaginazione come “gioco del credere che”, viene magistralmente messa in atto come capacità di creare un racconto che gioca su diversi piani ancorati alla medesima e verace realtà vissuta in prima persona.
La plurivocità di registri linguistici e stili di narrazione che si susseguono donano un ritmo che rende partecipabile la parola, mai assoluta, mai sciolta dalle vite concrete e sempre particolari a cui Campolo presta corpo e voce: le vite dei ragazzi migranti che hanno partecipato ai laboratori teatrali dal 2015 a oggi non sono le tessere di un mosaico di vuota eloquenza, bensì le raffigurazioni dettagliate e accorate di chi ha saputo prendersi cura di loro attraverso la propria arte. Dopo tanto silenzio e chiusura dei teatri si può finalmente tornare a vivere lo spazio teatrale nella consapevolezza dell’intrinseca apertura di cui è dotato, quando riesce a rivolgersi a tutti senza perdere la singolarità di ciò che racconta, quando è creato da parole che restano vive perché davanti allo spettatore è un corpo vivo a parlare, che da affamato si sazia della vita, offerta ben oltre la quarta parete.
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