di Ilaria Moretti
Il peggio è sempre al risveglio.
La Francia si alza con sospetto nella mattina di sabato 14 novembre 2015. Le bandiere sono già a mezz’asta e le strade quasi vuote. François Hollande ha decretato l’État d’urgence – una particolare misura restrittiva estesa a tutta la Francia – non accadeva dal novembre del 2005, data della rivolta delle Banlieues. A Parigi, la sera del 13 novembre, dopo i primi spari e le prime esplosioni, è scattato il coprifuoco. Alcune linee della metropolitana sono state interrotte, le vie chiuse. I cittadini scesi in strada per festeggiare il loro venerdì sera si sono ritrovati a passare lunghe ore nascosti in ristoranti a luci spente, serrande abbassate. Qualcuno, sui social network, ha messo a disposizione il proprio appartamento per permettere alle persone restate all’aperto, impossibilitate a tornare a casa, di passare la notte al sicuro. L’État d’urgence è esteso su tutto il territorio francese: i teatri sono rimasti chiusi, così le scuole – che con molta probabilità riapriranno i cancelli solo lunedì mattina – i viaggi scolastici sono stati sospesi, rafforzati i controlli alle frontiere, le perquisizioni, aumentato il numero di militari per le strade, nelle stazioni, davanti ai palazzi di giustizia.
Sono vietate tutte le manifestazioni, i cordogli di gruppo. Eppure, già da ieri, i cittadini si riuniscono come possono: esprimono la vicinanza, la solidarietà alle vittime, alle famiglie, al paese piegato da un nuovo attacco terroristico. Nelle principali città da Arras a Montpellier, da Nice a Lyon, passando per Saint Étienne, Bordeaux e Toulouse, la gente – a piccoli gruppi – è scesa nelle strade, ha acceso candele, deposto fiori, si è raccolta nel silenzio, qualcuno nella preghiera. I bambini hanno disegnato a terra con gessetti colorati facce tristi o messaggi di pace. A Parigi un musicista è riuscito a trasportare con la bicicletta il proprio pianoforte fino al Bataclan per poter suonare, a capo basso, Imagine di John Lennon: «nessun inferno sotto di noi/ sopra di noi solo il cielo/ immagina tutta la gente vivere per il presente/ immagina che non esistano frontiere/ nessuno per cui uccidere o morire/ e nessuna religione».
Dopo un sabato di ebetismo, incapaci di pensare a qualsiasi cosa non riguardasse l’attualità, con il borbottio monocorde delle notizie, la luce lampeggiante del pc o la carta stampata grigio pietra dei giornali, arriva il silenzio, il tempo della riflessione. Cosa scrivere? Come farlo, come continuare il nostro lavoro di testimonianza sul tempo presente? A cosa serve, oggi, parlare di letteratura e cinema, arte, mostre, pittura, fotografia, geografia? Come andare avanti quando il mondo si ferma e nelle strade permane solo il buio, le luci lampeggianti rosse e blu delle sirene, l’urlo e poi lo sparo?
Il lavoro va avanti, prosegue. Le parole mancano eppure si deve trovare la forza. Ci si deve rialzare, la vita va avanti azzoppata e sconvolta, eppure incede. Anche il silenzio, ci siamo detti, è una scelta, un atto di coraggio. Silenzio come gesto attivo, insieme impegno, luogo della riflessione. Possono le nostre formazioni molteplici, le parole studiate, imparate, gettate su carta, succhiate dai libri, può la nostra piccola conoscenza fornirci una chiave di lettura sul mondo? Difficile rispondere: ognuno reagisce come può, soffre come può, aiuta e ascolta in funzione della propria sensibilità, del proprio essere nel mondo.
A Parigi qualche coraggioso è sceso in Place de la République. «Not Afraid» recitava uno slogan del dopo Charlie. Oggi la paura dilaga, eppure sopravvive il desiderio di scendere in giardino, passeggiare lungo il fiume, bere una birra al sole. Credere – sperare – che nessun odio, nessuna radicalizzazione possa essere più forte del proprio desiderio di sentire, di stare sulla terra ed essere vivi.
Un’ultima parola. Forse è vero che in questi attimi di dolore, di vuotezza di senso, ci si trovi sconvolti e inariditi, incapaci di trovare un filo rosso in grado di unire senza retorica la guerra di parole, immagini e suoni che attanaglia la mente. Ci si interroga sull’etica della professione, sulla scrittura come arma, come mezzo per conoscere e diffondere. La sera del 13 novembre un giornalista de Le Monde che abita vicino al Bataclan ha filmato con il proprio smartphone la scena di alcuni ostaggi che scappavano dalle uscite di sicurezza. Alcuni non sono riusciti a varcare la porta: freddati e stesi a terra sono rimasti immobili, le braccia tese sull’asfalto. Altri correvano, un ragazzo trascinava un amico (ferito? Già morto?) un uomo si teneva la gamba cercando di correre. «S’il vous plait, qu’est-ce qu’il se passe? (Per favore, che cosa sta succendo?)» ha gridato il giornalista. In risposta solo urli, pianti, una ragazza che scappa, che tenta di dire, ma è frastornata e scompare nella notte. Lo si è rimproverato – «uno sciacallo!» – perché ha filmato l’”in-filmabile”. Che senso ha, ci si è chiesto, rendere atto dell’orrore, delle persone appese alle finestre, nascoste sul cornicione, in equilibrio sul vuoto pur di non-vedere, pur di cercare una possibile via di fuga? Ebbene quell’uomo, quello stesso giornalista video-amatore, è poi sceso in strada. La barbarie non l’ha solo filmata, ma vi è entrato dentro, ha camminato a pochi metri dai cadaveri, vi si è gettato a corpo teso per aiutare i superstiti, per essere, per partecipare attivamente non solo con la parola, non solo attraverso la documentazione. Una pallottola se l’è beccata pure lui: il braccio martoriato, avvolto da una coperta, è stato poi scortato dagli uomini del Raid. Il suo video ha fatto il giro del web. È giusto esser-ci fino a questo punto? Quale è il limite? Difficile dirlo.
Eppure la realtà è questa, documentata, filmata, popolarizzata. La frontiera dell’etica, del silenzio e del rispetto è difficile da stabilire. Cosa deve fare un giornalista? Quale è il limite della notizia? Cosa avremmo preferito sapere, cosa avremmo voluto tacere?
Qual è il ruolo di noi tutti, oggi, uomini e cittadini?
Non esiste una risposta univoca e, come già accennato, ciascuno reagisce a proprio modo. Su queste pagine a noi piacerebbe semplicemente ricordare come il dolore ci renda tutti simili, poiché il dolore di un uomo è, al fondo, il dolore di tutti gli uomini. Per questo, mentre il mondo si colora a strisce blu, bianche e rosse, a noi preme ricordare una notizia del 12 novembre 2015, proprio alla vigilia dei nostri attentati “occidentali”. Alle 18 tre kamikaze deachisti si sono fatti esplodere in una delle vie più frequentate di Bourj El Brajneh, a Beyrouth. 43 persone sono morte, 239 sono rimaste ferite. La mattina del 13 novembre, a poche ore dall’attentato di Parigi, nessun quotidiano nazionale europeo riportava la notizia in prima pagina, idem per la stampa mondiale. Le ricordiamo qui le vittime di Beyrouth, i morti innocenti e ignari, sottolineiamo qui, ancora una volta, la lacheté, la vigliaccheria di questi kamikaze giovanissimi – come nel caso di Parigi – che uccidono i loro simili: ragazzi che sparano su altri ragazzi. Alla barbarie, forse, non c’è limite. Ma vale lo stesso per la compassione e la compartecipazione: affinché non ci siano morti di serie B, affinché la tristezza di ciascuno sia anche la nostra.
[…] considerando il clima teso che la Francia vive in queste ultime settimane, divisa com’è tra uno Stato d’Emergenza che sembra allertare il cittadino contro un ipotetico pericolo imminente e che dall’altro vede […]
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[…] c’entra tutto ciò con l’attentato terroristico dell’altro giorno a Parigi e con l’Isis? A primo impatto, nulla. Sono due casi differenti, lontani nello spazio e nel […]