Esistono libri che parlano di calcio; ed esiste il libro che parla di calcio. Un vecchio motto sostiene che a inventare il gioco siano stati gli inglesi, ma i primi ad avere realmente imparato a giocarci furono, agli inizi del ‘900, gli uruguaiani. Quanto sia vera questa affermazione non ha grande importanza. Ciò che ci interessa è che proprio un uruguaiano sia stato uno dei migliori a raccontare e a descrivere il calcio. Si tratta del grandissimo Eduardo Galeano (1940 – 2015) e il suo libro sullo sport più popolare al mondo è il celebre Splendori e miserie del gioco del calcio. È un testo recente, del 1997, ed è fondamentale proprio perché viene scritto sul finire del XX secolo, un periodo di generale transizione e ciò, chiaramente, ha avuto effetti anche all’interno del mondo del calcio. Il mondiale successivo, quello di Francia 1998, sarà la prima edizione della coppa del mondo a trentadue squadre, con le stesse regole che conosciamo oggi. Ricky Martin canta la Copa de la vida e si iscrive alla manifestazione addirittura la nazionale delle Maldive, che durante le qualificazione asiatiche si rende protagonista di un leggendario 0 – 17 contro l’Iran. Chiunque, ormai, vuole partecipare alla grande festa del pallone. E ciò ha i suoi pro, ma anche i suoi contro. Nel suo libro Eduardo Galeano analizza entrambe le facce della medaglia.
La straordinarietà del calcio consiste nell’essere, nonostante tutto, sempre lo stesso gioco da oltre un secolo. Certo, è cambiata qualche regola, ma le principali sono rimaste invariate: si gioca undici contro undici, c’è un portiere che può prendere la palla con le mani, esiste il fuorigioco. E, soprattutto, si vive quasi unicamente per il goal, «l’orgasmo del calcio. Come l’orgasmo, anche il goal è sempre meno frequente nella vita moderna». Fin dalle prime pagine, lo scrittore uruguaiano non nasconde le proprie critiche verso il football moderno, secondo lui ormai quasi totalmente spogliato di ogni romanticismo. Infatti il titolo del libro è emblematico: il calcio è capace di splendori, ma anche di miserie. Il pallone resta al centro del sistema solare, su questo non c’è dubbio: è lui il protagonista assoluto e ha avuto il merito (o demerito), con il passare degli anni, di sapersi evolvere e cambiare abito. Intorno al pallone, però, hanno cominciato a ruotare pianeti differenti: le televisioni, il denaro, gli interessi politici ed economici dei potenti della terra. Galeano mostra di conoscere la storia del nostro paese, quando scrive che Silvio Berlusconi ha spesso utilizzato la grandeur del suo Milan per precisi scopi politici.
Nonostante sia lo stesso gioco, il calcio non riesce ancora ad annoiare. I protagonisti di questa «ultima rappresentazione sacra» (definizione pasoliniana) sono gli stessi. Il portiere, condannato all’eterna solitudine e alle ingiurie di compagni e tifosi; è sempre lui il primo a pagare il conto e questa «maledizione lo perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni». Portiere non professionista fu Albert Camus, il quale amava difendere la propria porta durante le partite disputate nelle assolate e torride strade algerine; e nella sua solitudine ha potuto formulare pensieri fondamentali per l’evoluzione del XX secolo. Fra gli altri, disse anche questo: «Tutto ciò che so di morale l’ho imparato dal calcio».
Dalla parte opposta del campo, spesso e volentieri gioca l’idolo delle folle. Quest’ultimo fa innamorare i tifosi, segna valanghe di goal, in pochi anni di vita ottiene donne, soldi, fama. Quando la parabola d’ascesa raggiunge il suo zenit, però, inizia il precipizio verso le tenebre: «A volte l’idolo non cade intero. E a volte, quando si rompe, la gente ne divora i pezzi». Come ogni grande monarca che ha finito per fallire, nemmeno l’idolo calcistico può sottrarsi dalla fame atavica della folla inferocita. D’altronde il tifoso, e il fanatico, non sono creature razionali. Assistono alla messa pagana ogni domenica e in quel lasso di tempo non possono essere responsabili delle loro azioni. Incapacità di intendere e di volere, si direbbe nel linguaggio giuridico. Il fanatico divide il mondo in buoni e cattivi, in nemici e amici: il resto non è contemplato. Spesso, durante la settimana è un individuo come tanti: ha i suoi affetti, la sua professione, le sue miserie, la sua bontà, i suoi valori. Ma in quei novanta minuti crede solo ai colori di quella bandiera che sventola in continuazione.
Uno dei tratti caratteristici del romanzo, oltre alla descrizione romantica dei protagonisti del gioco del calcio, è che viene compiuta una narrazione di ogni mondiale. D’altronde la ciclicità del calcio è uno dei motivi per cui l’entusiasmo degli appassionati difficilmente scemerà. Ogni quattro anni il mondo si ferma e assiste, per un mese, agli scontri fra paesi e culture differenti. Fra le grandi nazioni le guerre non si combattono più sul campo di battaglia, ma sul campo di calcio. Il linguaggio con cui spesso viene descritto questo sport non mente: cingere d’assedio la squadra avversaria, ribattere colpo su colpo al nemico, i soldati (pardon, i calciatori) hanno sparato con le polveri bagnate. Ogni quattro anni, solamente una nazione otterrà l’epica vittoria e verrà portata in trionfo dai propri connazionali. Dai mondiali cileni del 1962 a quelli sudafricani del 2010 (le edizioni più recenti del libro sono aggiornate proprio fino a quell’anno) Galeano, con l’ironia e la genialità tipicamente sudamericana, ripete un mantra: «Fonti ben informate di Miami annunciavano l’imminente caduta di Fidel Castro, che sarebbe stato rovesciato in poche ore». Storia e storia del calcio percorrono lo stesso sentiero.
Nonostante le critiche, feroci, tipiche di un innamorato deluso, Galeano è rimasto fino alla fine fedele al proprio amore. I mondiali del 2010 segnano la tappa più importante della storia recente del calcio uruguaiano: Forlan, Suarez e Cavani portano la celeste fino alla semifinale contro l’Olanda. Galeano si gusta quel mondiale con lo stesso entusiasmo di un ragazzino che scopre il pallone per la prima volta. È lui stesso a rivelarlo: «Quando è cominciato il Mondiale, sulla porta di casa ho appeso un cartello che recitava: Chiuso per calcio. Quando l’ho tolto, un mese dopo, avevo giocato sessantaquattro partite, con la bottiglia di birra in mano, senza muovermi dalla mia poltrona preferita». Nonostante i muscoli indolenziti e la gola infiammata, Galeano sa benissimo che ne è valsa la pena. Cosa rimane dopo tutte queste emozioni? Una sensazione di irrimediabile malinconia, «che tutti sentiamo dopo l’amore, e alla fine della partita».
fonte foto: minimaetmoralia.it