Sul panorama italiano e internazionale c’è un gruppo che sta consolidando la propria presenza a colpi di talento e rock psichedelico: i Sonars. La band è composta da tre ragazzi: i due fratelli Frederick e David Paysden insieme a Serena Oldrati. I giovanissimi ragazzi nel corso del 2015 sono arrivati a contare circa centoventi live in Italia e all’estero, condividendo il palco con artisti del calibro dei Verdena e portando nei locali più svariati di molte città l’ep autoprodotto Jack Rust and Dragonfly IV. Il complesso si è formato appena nel 2014 ed è senza dubbio ciò che serve al panorama indipendente attuale con la sua inventiva e il suo bagaglio di peculiarità. Il disco che i Sonars ci propongono è un viaggio in quattro tracce, che non possiamo ignorare. È la storia di un astronauta, Jack Rust, che negli anni ’40 si perde durante una spedizione, rompendo i contatti con la terraferma e continuando a viaggiare con la propria astronave, Dragonfly IV.
Il viaggio comincia con il singolo di lancio, Desert Moon, che ci immette immediatamente nell’atmosfera spaziale. I primi attimi sono occupati da messaggi radio tra terra e spazio i quali, piano piano, vanno mescolandosi con la musica psichedelica. La tastiera di Serena, la batteria di David e la voce cullante di Frederick rendono quasi tangibile l’immagine dell’ignoto e del viaggio: i suoni che producono sono eleganti e si amalgamano perfettamente l’uno con l’altro. La seconda traccia dell’album, Dragonfly IV, è più graffiante, fa uscire prepotentemente – a differenza del singolo precedente – tutte le influenze inglesi dei due ragazzi di Brighton. Se Desert Moon permette di abbandonarsi, Dragonfly IV è, appunto, un pezzo più energico, senza però tralasciare la dimensione onirica del viaggio. Il terzo brano poi è Flowers in Love, un perfetto punto di congiunzione tra i due precedenti. Grazie a variazioni incredibilmente virtuose, a una melodia psichedelica e rilassante, a un’altra più reattiva e travolgente, il brano è fluttuante e altalenante, con improvvisi cambi di atmosfera, tipici del luogo inesplorato che i Sonars vogliono mostrarci. Arriviamo così a Dilruba, l’ultimo brano, che rappresenta la fine di tutto. Si tratta di una traccia ombrosa e strumentale, dove la chitarra di Frederick la fa da padrona amalgamandosi divinamente con i suoni della tastiera. L’album in definitiva è elegante, non ha sbavature e niente è lasciato al caso.
Li abbiamo anche sentiti live a Firenze, al GLUE Alternative Concept Space. Sul palco si sono contraddistinti per maestria e carisma, così il passaggio da un pezzo all’altro è stato interrotto solo da sonori applausi. Se l’album ci ha lasciato sensazioni profondamente soddisfacenti, di fronte alla loro esibizione questi sentimenti sono aumentati esponenzialmente. I Sonars non sono un gruppo comune, sia per il prodotto che propongono, sia per come lo propongono. La loro musica è curata anche e soprattuto nelle sfumature, arrivando a creare un tripudio di sensazioni e colori, che viene confermato nelle performances live.
di Margherita Vitali
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