A sorpresa il ministro Dario Franceschini ha proclamato il 22 ottobre 2016 Giornata dei Teatri Aperti e a Milano la sala del Crt si è subito riempita. Prima dello spettacolo l’attore Elia Schilton ha letto un comunicato con il punto di vista degli addetti ai lavori, una categoria poco tutelata da sempre: per riempire i teatri tutto l’anno non basta una serata, occorrono sovvenzioni durevoli ed eque. Scrosciano gli applausi, ma è facile notare che molti spettatori sono in sala per caso, chiedono a qualcuno il titolo dello spettacolo, scrivono in Facebook di trovarsi nella bella sala della Triennale per un evento gratuito: alla fine usciranno perplessi, ma forse torneranno a teatro ancora.
Lo spettacolo Go.Go.Go./Brodskij Miraggi è difficile e ambizioso. Occorre anzitutto presentare il regista. Aleksandr Sokurov è un cineasta che conta al suo attivo una ventina di film di grande spessore. Sperimentazione di linguaggi, visioni, nostalgia, atmosfere pittoriche, sono gli ingredienti formali della sua ricerca; Storia e Arte, i temi preferenziali. Memorabile è ad esempio la tetralogia sulla follia del potere, centrata sui protagonisti del Novecento, Hitler (Moloch, 1999), Lenin (Taurus, 2001), Hirohito (Il Sole, 2005), completata dal Faust (2011, Leone d’Oro a Venezia). Capolavoro spartiacque, Arca russa (2002): un unico piano-sequenza di un’ora e mezza all’interno dell’Hermitage inquadra un vortice di personaggi in costume, che sfilano e scompaiono davanti alla cinepresa, a formare una sorta di “riflessione visiva sulla Storia”. La fascinazione del museo torna nel recente Francofonia (2015), girato in parte al Louvre.
L’atmosfera incantata dello splendido Teatro Olimpico di Vicenza ha attirato Sokurov per il debutto italiano di Go.Go.Go. (29 settembre-2 ottobre 2016), a cui hanno collaborato alla regia il gruppo Anagoor (Stefano Derai e Marco Menegoni) e numerosi cittadini. A Milano (7-30 ottobre 2016) lo spettacolo si è modificato, assumendo tonalità più autunnali ed evocative, perché il teatro è un organismo vivente e per sua natura mutevole.
Sulla scena una piccola folla si affanna a prendere posto per un cineforum all’aperto. Dandoci le spalle, guardano verso il fondale, occupato dalla proiezione di un decoro architettonico razionalista da cui ondeggiano glicini viola: proprio lì, fra le nicchie e i vuoti dell’architettura effimera ricreata dal proiettore, avverrà l’altra proiezione, il film di Federico Fellini Roma (1972). Si genera un gioco multiprospettico: noi spettatori osserviamo i personaggi in scena, a loro volta spettatori; i frammenti del film, visibili in immagini sfuocate e come in filigrana, sono proiezione nella proiezione, brandelli di luci e ombre, che si riverberano pure in una pozzanghera, chiazza di luce sul palco. Mago delle immagini fantasmatiche sullo schermo, Sokurov non poteva rinunciare a questi espedienti visionari, in una contaminazione riuscita di linguaggi.
Dove siamo? È un paesaggio dell’anima: in una piazza italiana immersa nella nebbia (forse Roma, Vicenza, Milano), tavolini di un bar e statua di una santa (ma nell’edicola votiva c’è un’enorme forma di parmigiano). I riferimenti temporali si sovrappongono: canzonette, abiti démodé e divise di soldati sembrano rinviare agli anni Cinquanta. Eppure siamo anche negli anni Settanta, e infatti per l’occasione arrivano in scena anche Fellini e Anna Magnani, ospiti d’onore alla proiezione, due figurine ritagliate nella nostalgia di un tempo passato, quando l’Italia era ancora capace di sognare.
Compare poi un altro personaggio, il fulcro attorno a cui ruota l’ispirazione del regista: il poeta russo Iosif Brodskij (1940-1996, Premio Nobel 1987), che ha molto amato l’Italia. In scena viene recitata una fra le più belle delle sue Elegie Romane: «Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frantume! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina. / Basta per tutta la lunghezza della tenebra».
La dualità luce-ombra, che confonde i contorni di giusto e ingiusto, civiltà e barbarie, è la cifra stilistica dello spettacolo. I protagonisti sono due personaggi di Marmi (1984), unico dramma teatrale di Brodskij, che immagina una situazione quasi orwelliana e intessuta di profonde domande esistenziali: sulle rive del Tevere, in una Roma apparentemente antica (imperatore è un certo Caligora), il potere ha deciso che il 3% della popolazione mondiale debba essere recluso a vita, indipendentemente dalle sue colpe, in un’altissima Torre in acciaio, mentre la vita dei detenuti è controllata da telecamere, microfoni e microspie. I due prigionieri sono Publio, un legionario di origini asiatiche, di mediocre cultura e dagli appetiti istintuali e Tullio, un raffinato patrizio romano che vive la reclusione come un itinerario di conoscenza. La pièce, di alto impegno speculativo, si regge sulla tensione oppositiva fra le due visioni.
Nel programma di sala Sokurov dichiara “to play with” l’opera di Brodskij, impostando la sua rielaborazione sulla lotta fra istinto e spirito. Publio e Tullio (Michelangelo Dalisi e Max Malatesta) ora non sono più reclusi ma, reietti e ai margini della società, osservano la piazza del mondo formicolante di vita. Come una sorta di Giano bifronte, sulla nuca recano una maschera che riproduce le fattezze dell’altro e ciò crea spiazzanti fusioni di piani, identitari e di prospettiva, perché essi guardano simultaneamente al passato (la piazza e il film felliniano) e al futuro (noi spettatori), e quindi anche simbolicamente alla superficie delle cose e alla loro profondità.
Sono pensatori e animaleschi, bramosi e famelici, uomini-topi o topi-uomini, e dicono che ogni bellezza deve essere divorata, inclusi arte, libri, cinema. Odiano gli umani, quei “barbari” impegnati ora nel silenzio contemplativo del film. Non più vittime ma carnefici, non hanno senso del limite o della giustizia e, dominati da una fame insaziabile, sarebbero pronti a divorare perfino il pubblico di stasera. Questo parossismo del predatore scaturisce dalla necessità di un proprio spazio vitale perché «l’assenza dello spazio è la presenza del Tempo», il Grande Spettatore della vita di ognuno.
Pur consapevoli della trappola, i due ratti decidono di lanciarsi sul prezioso formaggio, ma finiscono triturati da misteriosi ingranaggi, puniti per la loro cupidigia o esemplarmente straziati dai meccanismi di una società estranea e consumista. Un raggio di speranza compare alla fine, quando Brodskij abbraccia un giovane, in una sorta di investitura che indica il continuum dell’arte poetica: Go. Go. Go!
Questo esordio teatrale del maestro russo è un percorso fitto di specularità simboliche, inoltre l’alta speculazione è snocciolata talvolta con rapidità eccessiva e senza appigli di decantazione, con nuclei enigmatici o appena abbozzati. Ma lo spettatore resta impigliato nella rete estetica di Sokurov, che lo guida a profondità di sguardo e lucidità di pensiero.
Go.Go.Go / Brodskij Miraggi
da Marmi e altri testi di Iosif Brodskij
regia di Aleksandr Sokurov
Crt Teatro dell’Arte, Milano
7-30 ottobre 2016