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Il silenzio e il giudizio: Sorrentino, un regista per tutti

Bisogna accostarsi ai film di Tarantino attraverso un'immersione emotiva

2 minuti di lettura
Sorrentino premio oscar sorrentino

L’interesse che avvicina alle pellicole di Paolo Sorrentino è innanzitutto il riflesso mistico dell’aura che da esse riverbera. Ciò che ci mette nella disposizione d’animo di intendere una buona mescolanza tra Federico Fellini e Paul Thomas Anderson. Arrivare a conoscere Sorrentino molto tardi rispetto alla cronologia della sua attività di cineasta è forse il modo migliore per entrarci in contatto. La data di riferimento per un primo approccio di un fruitore estraneo al regista partenopeo è il 2011, anno in cui usciva nelle sale This Must Be The Place. Sarebbe forse stato più interessante scrivere una riflessione filosofico-esistenziale su questo stesso film. Ma sarà per un’altra volta…

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L’attenzione rivolta a un’opera d’arte è sempre condizionata da una “situazione emotiva”, questo è un “fatto” che va tenuto presente già per ogni ambito della nostra vita. Infatti ogni situazione, potremmo dire, è nello spazio, cade nel tempo e si struttura in base alla Befindlichkeit (sentirsi emotivamente immerso in).

Se si può scorgere un filo rosso che lega la produzione cinematografica di Sorrentino e dal quale si possa poi dedurre uno stile particolare come il suo: la via attraverso la quale ogni sentirsi situato emotivamente è la condizione della ricezione delle sequenze e al contempo la loro stessa essenza. In altri termini: lo spazio e il tempo vengono percepiti solo dopo essere ri-emersi dalla situazione emotiva. Lo spazio che si riduce a mero luogo scenografico, adegua la Stimmung alla Situazione e ha il carattere del colpo d’occhio momentaneo – quando si capisce il luogo in cui si sta svolgendo la scena, si perde ogni interesse che ancora avevamo circa esso, incornicia la scena e niente più. Dal ritmo delle sequenze e dalla tonalità emotiva dei colloqui e dei dialoghi non è difficile riconoscere lo sfondo filosofico-esistenziale delle pellicole di Sorrentino come tali.

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Scene di vita e riferimenti eruditi sono qui fuori discussione, in quanto considerati almeno secondari rispetto al luogo vero e proprio in cui si sviluppa la ricezione (sui generis) di questi film. Non c’è ostentazione in tutto questo, perché l’orizzonte rimane sempre il piano dell’esistenza dell’uomo. A questo proposito è indispensabile soffermarsi sul ruolo del silenzio. Infatti la nostra attenzione non è rivolta tanto ai dialoghi (spesso evidentemente costruiti), quanto ai momenti intermedi; gli intermezzi musicali e la “cura del particolare” in sequenze che mancano totalmente di fonemi.

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This Must be the Place (2011), La Grande Bellezza (2013), Youth – la Giovinezza (2015) sono tre film che spronano al silenzio pensoso, non a star zitti per non sapere cosa dire, o perché si è “altrove con la mente”, mentre si guarda il film. Al contrario, la costruzione stratificata incrina l’obiettività dello spettatore, il quale fatica a concentrarsi sul susseguirsi logico delle scene, sulla continuità unitaria delle vicende. Lo spettatore cade in un limbo del giudizio nel quale il sovraccarico di informazioni eccede la capacità di recepire. Per conseguenza, una visione che sia sentita a pieno, necessità di più re-visioni. In questo modo, Sorrentino ci costringe a guardare i suoi film più volte se vogliamo capirli davvero o ad interromperli dopo pochi minuti. E c’è chi si immerge nella ricerca nel mondo delle sensazioni, e chi ne resta fuori e si intrattiene nel giudizio, non potendo tollerare una spaesatezza così prolungata.

di Lorenzo Pampanini.

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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