Personaggi malinconici, feriti nell’anima, che si muovono intorno a un mistero. Mistero offuscato, però, dal passato buio dei protagonisti. Sharp Objects, miniserie prodotta da HBO e andata in onda negli USA la scorsa estate, è approdata su Sky il 17 settembre, dando vita, velocemente, a un ampio seguito. Anche sui social gli spettatori, sin dalla prima puntata, hanno cominciato a commentare e a dare il proprio responso alla nuova serie, paragonandola, il più delle volte, ad altre come True Detective.
Camille è una giornalista d’inchiesta che torna nella sua cittadina natale per scrivere della morte di una bambina e della più recente scomparsa di un’altra. Le domande, però, portano a verità nascoste che emergono a singhiozzo, rivelando dettagli all’apparenza irrilevanti, ma ricchi di un messaggio più complesso. Tra assonanze di eventi presenti e passati, a venire alla luce sono più verità: metterle insieme non è semplice e ricostruirle è compito dello spettatore più che della protagonista.
L’attrice che interpreta Camille è la star americana Amy Adams, celebre per le sue interpretazioni in pellicole come Il Dubbio, Animali Notturni, American Hustle e Arrival. Una scelta, quella di ingaggiare attori molto noti nel mondo del grande schermo, che il regista Jean-Marc Vallée aveva già preso per la sua precedente serie tv Big Little Lies, che ha visto Nicole Kidman e Reese Witherspoon come protagoniste.
I personaggi
I personaggi di Sharp Objects sono stereotipi non banali perché esasperati fino all’inverosimile. Esempio più evidente è quello della madre di Camille: una donna sull’orlo di una crisi di nervi, pervasa da un divismo anni ’20. Connotazioni che sembrano inconciliabili ma che finiscono per dar vita a una complessità affascinante, la cui comprensione da parte dello spettatore è forse lenta, come accadrebbe per una persona reale di cui si cerca di mettere insieme le diverse sfaccettature. Il detective Willis, invece, è un miscuglio di mistero e simpatia. Camille, giornalista dal passato torbido, appare costantemente sospesa tra un presente e un passato a volte interscambiabili, immersa in scene, a volte brevi, suggestivi fotogrammi, in cui la sua infanzia sale a galla perché smossa da un oggetto, un particolare che rievoca analogie nei suoi ricordi.
La regia
Ed è proprio questa continua alternanza di piani temporali diversi ad essere al centro di una regia dalle scene brevi e i passaggi bruschi, una regia spesso fastidiosa che, soprattutto all’inizio, porta lo spettatore a fare i conti con immagini destabilizzanti. Una suggestione pungente, fuorviante e, a volte, forzata che trattiene la suspence nella finzione di un tempo intermedio in cui assistiamo, allo stesso tempo, alla Camille adulta e quella adolescente vivere gli stessi gesti in esperienze poco dissimili. Una porta si apre, un gesto è inquadrato con dovizia di particolari, delle palpebre si aprono e, tutto d’un tratto, il tempo cambia e lo spettatore deve cogliere, in quel passato, gli indizi per decifrare la storia.
La provincia americana
Il contesto è quello di una classica piccola cittadina americana. Il provincialismo è esasperato nella descrizione di credenze e riti morbosi, un folklore che ha radici nelle credenze popolari e nell’arretratezza di un sistema chiuso. Nella cittadina di Wind Gap, duemila abitanti, tutti si conoscono e il dovere verso la comunità è un dogma. Il coprifuoco, imposto dalle norme sociali per proteggere i propri figli, è un’imposizione che gli adolescenti infrangono andando a comprare alcolici nei supermercati o girovagando per le strade. Un rimando a una società meno moderna di quella attuale, meno tecnologizzata, meno connessa, meno globalizzata. E’ in questo microcosmo, creato a immagine di un enclave degli anni ’90, che si svolge la storia.
E’ impossibile non cogliere un rimando, da prendere con le pinze, con la serie cult anni ’90 Twin Peaks: tra misteri che si infittiscono e personaggi ambigui si inserisce, infatti, un surrealismo volutamente dissacrante. E, nonostante ci sia un ancoraggio più saldo alla realtà, il richiamo alla celebre serie non passa inosservato. Certo, le storie sono molto diverse, ma le due serie hanno in comune una trama labirintica che non si snoda tanto sul piano dei fatti, quanto su quello della mente e della ricerca inconscia. Un continuo girovagare, insieme al personaggio principale, tra silenzi e turbe interiori che non sempre ha l’esito della verità. Ci si scontra, infatti, con i muri dell’ipocrisia medio-borghese, con il tema del ritorno alle proprie origini e con l’autocensura che ci si crea, come difesa, per non voler ammettere situazioni e soluzioni a volte nemmeno tanto complesse da individuare.
Non è dunque raro, mentre si guarda Sharp Objects, perdere il filo perché si inizia a riflettere su se stessi e sulle proprie paure e tormenti: cosa che accadeva con molta frequenza allo spettatore della serie di David Lynch. Ragion per cui non è scorretto affermare che Sharp Objects è un lento Twin Peaks contemporaneo, sorretto da una buona dose di differenze che ne fanno, comunque, una serie originale e di qualità. Una serie che si fonda su di un mondo alterato dalla presenza di demoni interiori che in Twin Peaks assumevano la veste di personaggi degni dell’horror più elegante e raffinato, mentre in Sharp Objects diventano portatori di una forma più umana e, forse per questo, ancor più disturbante.