Sprofondare nelle viscere di Shakespeare passando per la Sardegna è la sfida riuscita di Macbettu, spettacolo cult (premio Ubu 2017): un’ora e mezza per una tragedia di notte e di sangue, ridotta alla nuda essenzialità. La lingua è il sardo, con sovratitoli, la recitazione misurata e precisa, grazie a un gruppo affiatato e solido. Come ai tempi del Bardo, i ruoli sono interpretati da soli uomini: la sensuale e sanguinaria Lady Macbeth ha l’aspetto conturbante di un alto giovanotto barbuto, sul cui petto spesso si rifugia il protagonista Macbettu (un potente Leonardo Capuano). Un’atmosfera immobile e senza tempo tra colori plumbei e improvvisi squarci di luce che tagliano il palco, fosco e polveroso.
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Molto si è detto della bellezza fiera e sconcertante di questo spettacolo, un’originale e visionaria rivisitazione del capolavoro di Shakespeare. Ci limiteremo qui ad alcune osservazioni centrate sui punti di forza, che si intrecciano a formare altrettanti paesaggi.
Il respiro sonoro
Il giovane regista Alessandro Serra (dal 1999 alla guida della compagnia Teatropersona) dieci anni fa conduce un reportage fotografico sui Carnevali di Sardegna: maschere, campanacci, mamuthones, balli, canti, riti dal sapore ancestrale. La presenza di Dioniso è ancora palpabile. In Macbettu questo sfondo atavico si manifesta anzitutto come paesaggio sonoro.
La tragedia viene sezionata e trasposta in sardo, una lingua pervasa di mistero, ombre e musicalità. Qua e là riconosci alcune parole: «cras» sta per «domani», la notte è «oscurosa», il grido reiterato «Macbettu ha mortu su sonnu» ha la gravità ritmica di una voce che viene dal profondo passato. Inoltre, con attenzione minuziosa, Serra ricrea una partitura: nel buio assoluto dell’incipit, ecco una gragnuola di colpi che battono sul metallo, poi una pausa e poi di nuovo, un frastuono in crescendo che evoca la tempesta scespiriana, ma anche la soglia sonora che immette in un tempo “altro”. Alla fine invece, quando Macbettu è crollato a terra come una marionetta, vittima della sua cieca follia di potere, la sua storia tragica viene riassorbita dal buio, accompagnata da colpi ritmati, come lunghi respiri del destino.
In ogni piega dello spettacolo si nasconde un suono: campanacci, fischi, colpi, graffi su superfici metalliche, cascate sonore da una macchina della pioggia. E ancora, ronzii di mosche sopra il cadavere del buon re ma anche terribili grugniti di maiali affamati, quando le guardie di palazzo, a torso nudo e carponi, si abbeverano di vino ai piedi di Lady Macbettu, novella Circe. Fra i momenti più riusciti vi è una scena potente e ieratica: lo spettro di Banquo, appena ucciso da Macbettu, si presenta al banchetto e cammina lentamente sopra i tavoli cosparsi di pane carasau, che si frantuma scricchiolando sotto i suoi scarponi. Il morto calpesta il pane, un’azione che sfiora l’empietà, così come Macbettu ha calpestato le leggi dell’amicizia e della fedeltà: il “colore” sardo rifugge dai contorni folklorici e assume una dimensione universale.
Paesaggio visuale
Serra riserva un’attenzione particolare al cromatismo scuro, chiazzato talvolta di bagliori: buio e ombre acquistano valore simbolico, come pure i fasci di luce che inquadrano porzioni di palco. Ad esempio Macbettu al culmine dei delitti siede sul trono (una seggiolina di paglia che rende ridicola la sua ambizione): intorno a lui c’è il buio e la luce in diagonale illumina soltanto lui, la sua ombra e una pila di pietre, simbolo della catena di omicidi. La cura luminotecnica è affiancata all’ingegnosità di altre trovate sceniche: tavoli in metallo, dapprima posizionati in verticale come fondale (gli spalti), diventano poi tavoli del banchetto e infine alberi della foresta. Colpisce l’uso di materiali sobri ed essenziali: maschere di sughero “mimano” le sembianze della foresta di Birnam che cammina; tre travi di legno fanno da cornice al vuoto, per indicare la porta del palazzo, che oscilla e diventa sempre più simile alla sagoma di una forca. Sughero, pietre, legno, metallo disegnano i contorni di una Sardegna plumbea, scabra, archetipica.
Le streghe padrone dello spazio
L’elemento carnevalesco è evidente nelle figure grottesche delle streghe: velate di nero, gobbe, simili a vecchine petulanti e litigiose, oppure alle attittadoras che piangono i morti con cantilene luttuose. Procedono a passettini, giravolte, fra urti, scontri, rincorse, sputi, insulti, in un andirivieni a tratti esilarante. Scrivono sul palco una coreografia del caos: sollevano la polvere invece di spazzare, sono impegnate in un parlottio continuo e indecifrabile. Figlie della superstizione eppure anche Moire potenti del destino, rappresentano una corporeità disordinata e inquietante perché ha il dono dell’ubiquità. Infatti queste streghe sono padrone dello spazio, lo attraversano in lungo e in largo, tracciando cerchi e diagonali. Infatti sono le prime a comparire, scivolando dall’alto; quando poi i tavoli si schianteranno al suolo sollevando nuvole di polvere, d’un balzo eccole appollaiate a testa in giù come pipistrelli, forse simbolo di quel caos che preme sul mondo di Macbettu e lo porta alla rovina.
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Macbettu
da Macbeth di William Shakespeare
regia di Alessandro Serra
musiche pietre sonore: Pinuccio Sciola
produzione Sardegna Teatro 2016
fino al 16 dicembre 2018, Triennale Teatro dell’Arte, Milano
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