Designer, architetto, fotografo, dandy. Carlo Mollino è stato uno dei personaggi più vicini alla nostra sensibilità erotica, gravata dalla separazione tra pubblico e privato, dunque capace di far convergere i rivoli dell’immaginazione, del desiderio, entro un canone formale. La sua produzione architettonica – che pur si oppone a qualsiasi etichettatura – si configura come summa di un carattere eclettico, forgiato dalla passione per i motori, per l’aeronautica, per l’occultismo e la rabdomanzia. Il tutto senza stampelle morali, secondo un’idea di progettazione che germoglia dalla natura seguendone linee e tracciati, in un groviglio osmotico fra i tre regni e alcune personalissime, duttili, modernizzazioni futuriste.
Ne è esempio il Dining table, venduto all’asta da Sotheby’s per 6,2 milioni di dollari lo scorso 2020; un oggetto in legno modellato con piano in vetro, evidentemente ispirato alle forme plastiche degli aerei acrobatici. Tutti i mobili disegnati da Carlo Mollino tra gli anni Quaranta e Cinquanta presentano una duttilità “vibrante” di materia, dalle sedie Fenis e Lattes alla scrivania Cavour. Dall’anno della sua morte (1973), i collezionisti europei si contendono questi pezzi di design con inesausta devozione, a riscattare il lungo oblio cui l’artista fu condannato in patria prima dell’esplosione della Mollino mania, fatta di mostre, ristampe librarie e pellegrinaggi quasi devozionali alla Casa Museo di Torino.
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Proprio qui, in una palazzina di fine Ottocento sul Lungo Po, Carlo Mollino aveva allestito la sua dimora “perpetua”, uno spazio ristrutturato e arredato per otto anni (dal 1960 al 1968) nel segno dell’antica civiltà egizia, puntellata di riferimenti all’occultismo: dal letto a barca al tavolo ovale, dalla parete con le farfalle agli specchi che riflettono il fiume e il roseto adiacente. «Proprio come facevano i faraoni, Mollino senza dirlo a nessuno né scrivere una riga, stava preparando la sua Piramide» spiega Fulvio Ferrari, fondatore del Museo e autore di varie pubblicazioni dedicate all’artista.
È lui ad aver trovato, in una scatola per scarpe, le polaroid di nudi femminili scattate da Mollino nelle sue garçonnières: scatti privati, studiati in ogni dettaglio, eppure immediati, sfolgoranti di visività erotica. Li ha raccolti in un volume lo stesso Ferrari, in collaborazione con il figlio Napoleone, anche lui esperto molliniano. Polaroids, pubblicato dall’editore statunitense Arena, è un concentrato delle passioni dell’artista; vi campeggiano ragazze normali, dai corpi sinuosi e imperfetti, adagiate su mobili progettati da lui stesso in obbedienza all’ispirazione carnale, con curve armoniose e varietà di trompe-l’oeil usati per creare un’“architettura della persuasione”.
La Casa presieduta da Ferrari è, in realtà, il quarto teatro del Mollino fotografo; un ambiente in cui lui non ha mai vissuto, con pavimenti, sedie, tendaggi e specchi pensati per «proteggere la sfera privata dalla moralità pubblica» come scrive Benedetto Gravagnuolo in riferimento ad Adolf Loos. Protagoniste di questi scatti sono giovani sconosciute, spesso “reclutate” nei night club dagli amici di Mollino oppure incontrate per strada, nell’ideale baudelairiano dell’amore all’ultimo sguardo.
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Queste giovani, spesso pagate per i loro scatti, ricordano nelle pose e nell’abbigliamento le modelle dei primi Playboy di cui Mollino era un avido collezionista. Adagiate su mobili modernisti, spesso in piedi davanti a una tenda o sdraiate su una poltrona o su un sofà, le donne occupano lo spazio della seduzione indossando capi di lingerie e accessori alla moda dell’epoca: stivali che arrivano a metà coscia, giubbotti in pelle, minigonne, pellicce.
Prima della Polaroid, Mollino utilizza la Leica, sottoponendo ogni immagine a specifici ritocchi per mezzo del ferrocianuro e della spazzola, utili a definire i contorni e a sfumare l’immagine, come ben si evince dagli scatti in bianco e nero, o quelli in cui le modelle indossano una gonna bianca trasparente, vero oggetto-feticcio delle sue fotografie.
Nessuna di queste è mai stata firmata. L’autore ne ha scattate circa duemila, custodite in una scatola nascosta in una cassettiera. Un gioco di matrioske, di cellule dentro cellule.
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