«Dannato momento quando scopri che il tuo migliore amico si rivela il tuo peggior nemico!». Chi sa se lo avranno pensato insegnati, maestri, presidi e professori davanti alle novità della scuola digitale, quella delle lavagne multimediali, dei registri elettronici, dei tablet. A dieci anni dalla Riforma Gelmini, la prima a stanziare una consistente somma di denaro per una scuola 2.0, facciamo il punto della situazione per capire quanto, come e se ha funzionato il percorso verso la scuola digitale.
La Riforma Gelmini
Correva l’anno 2008: Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca vara una delle riforme più controversie del Governo Berlusconi IV, la Legge 169/2008 per riformare e rivedere in alcuni suoi nodi cruciali il modello di scuola in Italia. Numerose le polemiche, molte le perplessità, eppure la riforma ha avuto il grande merito di averci fatto fare il primo importante passo verso la scuola digitale, introducendo nelle classi italiane la LIM, lavagna interattiva multimediale, che oggi è presente in circa il 96% dei plessi (operazione costata 93 milioni di euro). Ormai diffuse in modo capillare in tutto il territorio, le LIM hanno però problemi legati alla manutenzione: quest’ultima, che spetta ai singoli plessi, è molto costosa e non sempre è possibile per mancanza di fondi. Il risultato? La tecnologia funziona quando i singoli plessi riescono – con le proprie forze o con fondi regionali – a garantirne il corretto funzionamento.
La Buona Scuola
È però il 2015 l’anno in cui si parla per la prima volta in Italia di una chiara e strutturata scuola digitale. I velocissimi cambiamenti tecnologici degli anni 2010-2015 costringono il governo Renzi ad una riflessione ampia sul ruolo della scuola in un mondo in continuo cambiamento: è così che prende forma quel modello di scuola pensato per i “nativi digitali”, i “millennials”, figli di un nuovo paradigma di vita. Le riflessioni del governo si traducono nella Legge 107/2015, meglio nota come la “Buona Scuola”.
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Non molti sanno che una delle colonne portanti della Buona Scuola è il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale. Quali obiettivi si era posto il governo con questo piano? Fornire a tutte le scuole le condizioni per l’accesso alla società dell’informazione, fare in modo che il “Diritto a Internet” diventasse una realtà, fibra per banda ultra-larga in ogni scuola, potenziamento dell’infrastrutturazione digitale della scuola con soluzioni “leggere”, sostenibili e inclusive, trasformazione dei laboratori scolastici in luoghi per l’incontro tra sapere e saper fare.
Il punto della situazione
In questi ultimi dieci anni abbiamo destinato circa 2 miliardi di euro alla scuola digitale, eppure i frutti degli investimenti faticano ad arrivare. La didattica digitale negli ultimi 18 mesi è migliorata ma molto lentamente, creando – tra le altre cose – un ulteriore divario tra Nord e Sud del Paese.
L’Agi ha mostrato che solo il 13% degli istituti è raggiunto dalla fibra e che poco più di 1 studente ogni 10 frequenta una classe veramente digitale. Anche i libri di testo in formato digitale non decollano e spesso altro non sono che formati PDF del libro cartaceo. Si apre inevitabilmente poi il grande tema dei corsi di aggiornamento ai docenti: i corsi sono pochi e gli strumenti tecnologici da usare con agilità aumentano anno dopo anno (LIM, tablet, registri elettronici, mailing list ecc.).
Se è vero che la “Buona Scuola” ha introdotto obbligatoriamente nelle scuole figure esperte in tecnologia a sostegno di docenti e studenti, è altrettanto vero però che spesso le risorse umane disponibili sono troppo poche per garantire un aiuto immediato a tutti. E avere la classe docente più anziana d’Europa non aiuta quel tanto agognato processo di incontro con i nativi digitali.
Una cosa è certa: non si torna più indietro e anche se si volesse fare sarebbe folle pensare di escludere il mondo della scuola dalle rivoluzioni tecnologiche. Mentre il dibattito tre cartaceo e digitale sui banchi di scuola continua a coinvolgere professori, intellettuali, esperti del settore e società civile, una nuova classe dirigente politica che avrà l’onore e l’onere di ripensare e migliorare ciò che non funziona nella scuola digitale sta per formarsi e il Movimento 5 Stelle, primo partito d’Italia nelle ultime elezioni politiche, ha fatto proprio del “diritto ad internet” uno dei suoi slogan elettorali.
Nel 2015 Matteo Renzi aveva promesso la fibra in tutte le scuole entro il 2018 (poi 2020) con l’obiettivo di colmare soprattutto il divario tra nord/sud e centro/periferie. Chiaramente un intervento del genere aiuterebbe a diminuire le disuguaglianze ed aumentare – allo stesso tempo – l’accesso alle conoscenze, perché in fondo il punto sta proprio qui, nel vedere nella tecnologia non un fine bensì un mezzo per migliorare la didattica e le modalità di apprendimento.
Tra tentate riforme, piccoli successi e alcuni buchi nell’acqua il processo di scuola digitale non si ferma e c’è ancora spazio per la fiducia. Quindi per ora calmi con i giudizi, ci tocca ancora aspettare ancora un po’: il meglio deve ancora venire.